■9■ Discorsi & Divani

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«Ti ho spaventato?».

«Cosa? N-no...» balbetto. Invece è proprio così. Mi ha fatta intimorire parecchio con quel suo discorso, dopotutto non è una realtà tanto lontana. Ci sono un mucchio di persone che impazziscono o che hanno qualche rotella in meno. Per non parlare dei pervertiti.

«Allora cos'è quella faccia?».

Involontariamente i miei occhi vanno a posarsi su quella maledetta serratura e vedo che lui se ne accorge.

«Abitudine» dice.

«Ehm... a cosa ti riferisci?» torno a guardarlo. Devo avere senz'altro gli occhi sbarrati, tento perciò di rilassarmi o di darne quantomeno la parvenza.

«Non lascio mai la chiave vicino alla porta, il suo posto è qui, in tasca» indica il lato destro del suo pantalone che non vedo perché sotto il tavolino. «Potrei scordarla lì durante il lavoro e chiunque potrebbe prenderla. È più per la noia di dover fare una nuova serratura che per altro».

«Giusto».

«Se vuoi riapro. Ma sappi che ci sono un sacco di ubriaconi in cerca di un locale pronto a soddisfarli a quest'ora. Anzi...» si alza e mi fa cenno di seguirlo.

Faccio come mi ha indicato, mi viene spontaneo, nonostante il timore che si annida sempre più nella mia pancia.

Spegne la luce nella sala che stiamo abbandonando e mi fa strada verso una stanza sul retro. C'è un divano nero di pelle e di fronte ad esso, un tavolino basso dalla struttura di legno scuro e il ripiano in vetro satinato. Una piantana a luce calda illumina la stanzetta, regalandole un'atmosfera rilassante.

Il mio stomaco invece brontola per un attimo e non di certo per la fame, anche se un senso di vuoto mi divora. Spero che lui non se ne sia accorto e in effetti pare di no, mi sorride sempre sollevando solo un lato della bocca e con il capo mi indica il divano. La rigidità del mio corpo si scontra con il tessuto stoppaccioso della seduta ed è così che mi ci appollaio sopra: come una gallina imbalsamata. Spero che non mi si sieda accanto.

Mi si siede accanto.

«Vuoi toglierti il giubbotto?» chiede ruotando il corpo verso di me.

«Sto bene così, grazie» dico tutto d'un fiato. Mi soffermo a guardare i suoi occhi e pare che in un attimo essi affondino e arrogantemente si prendano un posto dentro di me. Non so spiegare che sensazione mi stia sovrastando, ma mi inebria e mi fa tremare al contempo.

Finalmente smette di guardarmi o, per meglio dire, di scrutarmi e scuotermi le interiora. Appoggia la schiena al divano e si lascia andare come se non avesse più forze.

«Stanco?» faccio io apparentemente disinvolta.

«Parecchio. Il weekend è sempre tragico».

«Il locale è tuo?».

«Sì. Era di mio padre e io ci lavoravo insieme poi lui ha avuto un brutto incidente ed è rimasto disabile e mi sono assunto l'impegno al suo posto».

«Ah, mi dispiace» dico la solita frase di circostanza. Tento di sistemarmi su quella specie di cassapanca chiamata divano. Ricordo che quando eravamo in cerca di uno che sostituisse quello che avevamo in casa mia, cercavamo qualcosa che si aprisse e diventasse letto, così, giusto per avere qualche posto in più in caso di ospiti. Il commesso, un uomo sulla quarantina in prepotente e avanzato stato di depressione, ci disse che non potevamo avere tutto.

«O la comodità del letto o quella del divano».

«Sì, ma... a parte la comodità, vorremmo uno che sia bello esteriormente e che stia bene con il nostro arredamento» aveva detto mio padre, quasi sentendosi in colpa. Il commesso aveva sbuffato e ci aveva portati al successivo ed era duro come la sella di un cavallo. Proprio come questo.

Ed è quello che mi accadrà. Mi verrà la sindrome della sella se resto ancora un po' qui.

«È scomodo?».

«È assurdo!» rido come un'ebete. «Mi leggi nel pensiero».

«Non saresti la prima che lo trova così. Si vede anche da come ci sei seduta sopra».

Ridacchio e penso ancora al commesso del mobilificio: «Ovvio che sia così duro, come dite voi! Questa è vera pelle di bufalo, mica similpelle o quelle robe là da quattro soldi! Guardate qua che gran letto diventa!» diceva ormai sull'orlo di una crisi di nervi. Ricordo che in quel momento avrei voluto buttarlo sul materasso e chiudere la rete con lui dentro. Lui e le sue robe! Dove ha imparato a parlare italiano, questo tipo?

ESsE mi guarda pensieroso. Mi sento obbligata a tirar fuori un argomento.

«È in vera pelle di bufalo?» chiedo di getto toccando quel tessuto così rigido. Mi mordo un labbro per il discorso brillante che ho appena iniziato. «No, perché tempo fa io e la mia famiglia...».

Mi interrompo e mi porto entrambe le mani nei capelli. Devo essere così rossa da sembrare un vulcano che getta lapilli incandescenti.

«Davvero sei qui per parlare di divani?» dice serio.

Trovo un rimasuglio di coraggio per guardarlo negli occhi e ancora quegli stessi mi catturano. Iride e pupilla si fondono e non si staccano dai miei. Non sono mai stata così vicina ad un ragazzo senza che sposti continuamente lo sguardo dagli occhi alla bocca e viceversa. Ma lui non lo fa, lui li tiene fissi nei miei, non sui miei, ma nei miei. Dovrei dire qualcosa...

«Non lo so perché sono qui» confesso. Ho un vuoto mentale e sono così confusa. Scaccio definitivamente il commesso dalla mia testa e in tutto questo mi rendo conto che i nostri occhi continuano ad essere incatenati.

«Se vuoi ti rinfresco la memoria» le sue parole.

All'improvviso mi piomba addosso tutto quello che è accaduto prima di arrivare qui. Mi aveva detto: "Domani potrei non esserci più".

«Cosa avevi intenzione di fare questa notte?» dico riprendendo il controllo di me stessa. Il mio tono è quasi di accusa nei suoi confronti, di rimprovero, come quello che usa spesso mia madre quando faccio ciò che non dovrei o quando non eseguo quel che mi chiede di fare.

«Niente di che».

«Ma tu hai detto che...» mi interrompo e guardo il ciuffo liscio che gli scivola lentamente sulla fronte. Abbasso gli occhi e vedo che ha le mani unite, con le dita incrociate, ma ferme, appoggiate su un jeans chiaro e strappato in vari punti.

«Ho detto che...?» ricalca le mie parole.

Sembra calmo. Se avesse intenzione di farla finita dovrebbe riflettere un minimo di pazzia, follia, ansia e non so cos'altro.

Ride e io imbroncio.

«Sto parlando di una cosa seria!» esclamo.

«Sì, scusa. In effetti avevo intenzione di farla finita» dice candidamente, quasi non ci fosse nulla di importante o allarmante in ciò che mi ha appena riferito. «E tu?... Tu sei qui per salvarmi?» sorride e allunga una mano verso la mia guancia.

Me la sfiora con il dorso di due dita.

Mi sento di perdere aria...

ESsEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora