■17■ Colazione in camera

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Un'irrefrenabile bisogno fisiologico mi fa schizzare giù dal letto così velocemente che mi sento una cavalletta. Il materasso mi sembra più vicino al pavimento, lo constato quando metto i piedi giù e toccano terra prima del solito. Forse le gambe mi sono cresciute durante la notte? E dove diavolo sono le mie pantofole? Lancio qualche calcio a vuoto tastando le mattonelle fredde, ma proprio non riesco a trovarle. La stanza è buia come non mai e si sente una strana puzza di sigaretta. Panico. Mi ci vuole un po' per riprendermi e capire che non sono a casa mia, nella mia stanza, ma in una camera di albergo con Dennis.

A proposito, dov'è?!

Il letto è disfatto, però lui non c'è. Mi alzo e seguo la luce sottile che incornicia la porta del bagno su tutti e quattro i lati. La sfioro con le nocche dando due timidi colpi. Nessuna risposta. La apro, solo per scoprire che la stanza è vuota e così ne approfitto per espellere tutti quei liquidi che mi hanno fatto svegliare e mentre inizio a sentire sollievo, mi balza in mente una cosa: e se Dennis fosse andato via lasciandomi qui, in questo posto sperduto tra le montagne? Giuro che non glielo perdono! 

Quel timore, meno male, finisce nelle fogne come lo sciacquone che adesso fa mulinello sul fondo del gabinetto. Poco fa ho sentito puzza di fumo, quindi non mi resta che guardare sul balconcino al di fuori della stanza. Lui è lì di sicuro.

Sono contenta quando capisco che non mi sono sbagliata. Lo guardo da dietro ai vetri ed è seduto su una specie di gradino, avvolto da una piccola spirale di fumo grigiastro. Ha il capo chino, come una persona che sta riflettendo sull'esistenza. È in contrasto con la luce del lampione che si posa sulle sue spalle, ma lascia il suo viso completamente nell'ombra. Apro la porta finestra e subito solleva la testa. Gli occhi gelidi mi arrivano tanto quanto la frustata di aria fredda che prepotentemente entra nella stanza. Cambia repentinamente espressione e subito spedisce via la sigaretta, ormai accorciata sino al filtro, con un colpo secco delle dita. 

«Sono sceso giù nella hall e ho scoperto non solo che dispensavano già la colazione, ma anche che c'è un tabacchino non appena si attraversa la strada. Vuoi?» mi porge il pacchetto.

«Non fumo» dico secca.

«Ti dà fastidio, immagino». 

«Parecchio».

«Dovrai sopportarlo» dice, poi mi passa davanti con la sua scia puzzolente ed entra. Chiudo immediatamente la porta e lo vedo andare in bagno a lavarsi le mani. Accendo la luce della camera e mi accorgo che sul tavolino che fa da comodino, c'è un sacchetto che il mio stomaco identifica subito come "involucro di un caldo cornetto alla crema" e, preso da entusiasmo, inizia a scatenare i suoi versi famelici per reclamarlo. Dennis esce dal bagno e mi fa cenno.

«Colazione in camera, serviti pure». 

«Grazie» riesco solo a dire e sto già addentando l'angolo croccante della brioche. 

«Se non ti spiace ci rimettiamo in viaggio» continua lui distrattamente allacciandosi le scarpe.

«Certo» acconsento con la bocca piena e la voce mi esce soffocata. Il cioccolato fuso - non la crema che mi aspettavo - inizia a colare fuori e qualche goccia finisce sul pavimento. Meno male che lui è intento ad annodarsi i lacci. Ingurgito tutto in fretta e furia, rischiando di strozzarmi e con il tovagliolo pulisco la mattonella sporca. 

«Quello è mio?» chiedo indicando il bicchiere in polistirolo provvisto di coperchio. Annuisce con la testa e così completo la colazione sorseggiando il cappuccino ancora bollente.

Dopo ciò lasciamo tutto e ci rimettiamo in macchina. Vedo Dennis dare un occhio fugace al cassone, dietro, accendere l'auto fredda e lasciarla riscaldare un po' per poi ripartire. 

«Sai guidare?» mi domanda di punto in bianco.

«Ho il foglio rosa».

Ci immettiamo in autostrada, una lingua d'asfalto liscia e quasi perfettamente dritta ai piedi di imponenti montagne. Fanno anche una certa impressione, sembrano degli altissimi muri che precludono la vista dell'ambiente circostante, tolgono il fiato, regalando un gratuito senso di claustrofobia. Inizia a spuntare il sole proprio di fronte a noi, come se nascesse lì, dove la strada sembra congiungersi in un punto lontano, ma io vedo una luce diversa sul viso di Dennis. È di certo più rilassato dopo aver dormito, ma appare pensieroso, come se una nuova consapevolezza avesse fatto capolino dentro lui. 

«Quanto dista il posto in cui dobbiamo andare?» cerco di estrapolare informazioni.

«Mancano circa quattro ore di strada, includendo mezz'ora di sosta tra rifornimento carburante e qualcosa per riempirci lo stomaco, più tardi».

«Dove andiamo esattamente?». 

«Non ci sei mai stata da queste parti?».

«Assolutamente no» guardo i cartelli stradali e leggo "Brennero".

«Meglio così. Tanto non occorre che tu sappia il nome del luogo in cui siamo diretti. Dopo questo viaggetto, ti conviene scordare tutto». 

Storco la bocca infastidita da questi discorsi così poco chiari e prendo il telefono che, a quanto pare, ha un livello di autonomia critico. Lui se ne accorge ed estrae dal cruscotto un caricabatterie. Il caso vuole che abbiamo la stessa marca di telefono e quindi l'ingresso del cavetto corrisponde alla perfezione. Sarebbe stato tragico stare senza telefono per tutto il giorno. In particolar modo immagino il momento in cui i miei genitori o mio fratello si faranno vivi per sapere come me la passo senza di loro e, cosa ancor più importante, se andrò a scuola. Rifilo un messaggio veloce a Dorota.   

«Oggi non vengo, ma i miei non lo sanno. Coprimi. Anche con Jeremy. Mi devi un favore, ricordi?».

«No, quale favore?» risponde lei senza cadere vittima della mia falsa convinzione.

«Allora facciamo che sono io a dovertene uno, ok?». 

«E va bene, ma che è successo?».

«Niente, voglio starmene tranquilla per una giornata, svagarmi un po', magari esco e me ne vado al cinema».

«Perdi un giorno di scuola per la tua solita pigrizia?». 

«Prometto che non mancherò più per stupidaggini».

«Certo. Ci credo» e immagino il suo tono sarcastico. Con quella promessa buttata lì senza troppi pensieri, chiudo la chat con Dorota e apro quella con mio padre.

«Buongiorno vacanzieri! Come vedete mi sono alzata in orario. Adesso faccio colazione, mi vesto e filo (purtroppo) a scuola. Com'è andato il viaggio? Siete arrivati?».

Dopo solo qualche minuto, il mio papino mi risponde che è andato tutto bene e che sono solo un po' stanchi e storditi per tutta la strada percorsa. Non immaginano quanto li capisca! Mi fa le solite raccomandazioni e mi manda un bacio dalla mamma, bacio che senz'altro si è inventato. Mia madre non mi manda baci, mai. 

  «Non voglio nemmeno immaginare cosa ti sia dovuta inventare per coprire questa tua scappatella» esclama Dennis.  

  «Ecco, bene, non pensarci, tanto è tutto ok».  

  «Mi fido. Dopotutto non mi sembri una delle diciottenni tanto stupide che ho conosciuto».  

  «Come fai a sapere che ho diciotto anni?» tento di prenderlo in contropiede. Questo tipo sa un po' troppe cose su di me.  

  «L'ho immaginato. Hai detto di avere il foglio rosa... Quindi almeno diciotto anni o giù di lì devi averceli». 

Lo guardo muta e pensierosa.  

  «E poi me lo hai detto anche in una delle nostre chat su VS».  

 «Mh... E ti ho detto anche dove abito?».  

«E beh, sì. Altrimenti come facevo a saperlo?» asserisce sicuro di sé.  

«Strano, parlo davvero poco di me a persone che non conosco...» tento di fargli capire col tono della mia voce che non abbocco alle sue dubbie affermazioni. Lui continua a guardare la strada tranquillo. 

 «Non credi sia arrivato il momento di dirmi la verità?» dico e, da un lieve sbandamento della macchina, si vede chiaramente che è stato colto di sorpresa. Riprende il controllo e poi esprime la sua rassegnazione con un: «Ok». 

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