17. If i say

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Tell me if you ever cared,

If a single thought

For me was spared.

Tell me when you lie in bed,

Do you think of something

I once said.”

Il sole caldo della tarda primavera italiana splende sopra le nostre teste. Lo scenario scelto per questo ciclo di conferenze è stupendo. Villa Olmo si apre davanti a noi in tutto il suo splendore di giochi d’acqua e giardini perfettamente curati. Sono paralizzata dallo splendore che emana questa imponente costruzione neoclassica. Tra le mani stringo la cartelletta con il programma dettagliato di questa immersione nel culto dei santi in Islanda. Sono un po' spaventata. Non mi sento pronta ad affrontare un congresso di questa portata. E sopratutto, non mi sento pronta a fare le veci di Charles. Sono ancora solo una studentessa. Questa prima giornata sarà divisa in due parti con diversi ospiti da tutto il mondo. Ma, il pomeriggio, sarà gestito da un solo interlocutore. Non ne capisco molto il senso ma non posso discutere decisioni che sono al di fuori dal mio controllo. La sala grande, adibita all’incontro del mattino, è già mezza piena di personalità che hanno preso posto. Poche sono le sedie ancora libere. Sporgendomi con lo sguardo riesco a vedere una sedia libera davanti al tavolo degli ospiti di oggi. Mi faccio largo, maldestramente, tra le gambe delle persone già seduta e poi mi accomodo. Sollevo gli occhi dalla mia borsa e mi imbatto in due pozzi neri. Due pozzi che accompagnano un sorriso sornione che padroneggia sulla barba ispida e di qualche giorno. Alla prima occhiata, l’unica che possa permettermi in questo momento, sembra un uomo sulla quarantina a cui piace guardare. Non sento il regista della conferenza dargli la parola ma lo vedo alzarsi dal suo posto e trovare appoggio sul bordo della cattedra. Come il professor Brannagh. In quella posizione riesco ad osservarlo bene. Quello che distrae non sono i suoi interventi, tutti per altro ben strutturati e ben argomentati, ma i suoi pantaloni cachi e la camicia blu notte con i primi due bottoni slacciati. Cerco di concentrarmi sugli appunti che devo prendere ma non riesco a staccare gli occhi da quelli di quest’uomo. Sento a mala pena che qualcuno prende posto, più in ritardo di quanto fossi io, sulla sedia affianco alla mia.

*

Questa prima parte della mattina è, letteralmente, volata via. Tra le chiacchiere, le domande e gli occhi di quel professore. Sono arrivata tardi anche per sapere i nomi. Adesso ci siamo spostati tutti per una pausa che assomiglia molto di più ad un banchetto. Appena fuori dalla sala congressi, una lunga tavolata bianca è coperta da ogni tipo di pietanza. Quando di dice colazione continentale. Uova strapazzate, brioches e torte. Il tutto accompagnato da quello che definisco il grande spartiacque. La caffetteria o il prosecco. Ma come si fa a servire del prosecco alle 11 del mattino? Lascio la risposta a chi ne sa più di me e mi avvicino per prendere una tazza, fumante, di thè. Ne prendo una lunga sorsata, non lo servono bollente come piace a me ma non è malaccio. Mi giro per lasciare il posto a chi ha veramente bisogno di cibo ma il passaggio è bloccato. Per poco non faccio una delle mie solite figuracce, rovesciando la mia tazza addosso a qualcuno. Davanti a me il professore di questa mattina ostruisce la mia via di fuga dalla calca che si sta creando per il cibo.

“Buongiorno” -il suo tono di voce è deciso e graffiato. Si sistema meglio gli occhiali sul ponte del naso e poi mi guarda. Anzi, guarda la mia tazza fumante e poi guarda me. Sono in forte imbarazzo.

Flowers, sweets and secretsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora