Scacco Matto

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Tutti a Thülde conoscevano la leggenda di Casa Hoffman, un’austera magione che sorgeva solitaria fra gli abeti della Foresta Nera. Era disabitata da molti anni, precisamente dalla fine della seconda guerra mondiale; la famiglia Hoffman era stata molto vicina, per amicizia e ideologia, ad Adolf Hitler, e Gustav.

Hoffman, il capofamiglia, aveva prestato servizio nel campo di concentramento di Auschwitz. Era stato ucciso alla fine della guerra dagli americani e la sua famiglia si era dispersa, ma prima di allora era riuscito a compiere ogni sorta di raccapricciante atrocità sui prigionieri e nella sua casa, a detta di tutti, c’erano ancora numerose prove del suo sadismo e della sua crudeltà. Paralumi di pelle umana; tazze ricavate da calotte craniche; braccialetti di denti di bambino.

Ma gli abitanti di Thülde non facevano che parlare della scacchiera di Hoffman, un oggetto di fattura squisita e di altrettanto squisita malvagità: ogni pezzo, infatti, era intagliato nell’osso di una vittima di Auschwitz. I vecchi del paese raccontavano ancora di come Hoffman adorasse quel tetro svago, di come ne lucidasse amorevolmente i pezzi e di come, di quando in quando, portasse a casa sua un prigioniero dal campo di sterminio per fare con lui una partita. Se l’uomo avesse vinto, avrebbe avuto in cambio documenti falsi che attestavano la sua identità ariana e sarebbe stata libero di andare via. Se, al contrario, avesse perso, Hoffman lo avrebbe condannato al più atroce dei destini. Persino peggiore, si diceva, di quello che avrebbe patito ad Auschwitz.

Nessuno aveva mai messo piede in Casa Hoffman e la magione, con gli anni, era scivolata in un deplorevole stato di corruzione per via degli elementi. Fu proprio così che in un giorno nebbioso di inizio gennaio la videro gli occhi di Peter Eisinger, un ventiseienne del paese che si era spinto fino alla magione per fare ciò che nessuno mai aveva osato fare: entrare all’interno e scoprire se la leggendaria scacchiera di Hoffman esisteva realmente. Un oggetto simile sarebbe valso di certo una grande somma di denaro: i collezionisti dell’Olocausto avrebbero sborsato qualsiasi cifra pur di ottenerla.

Eisinger non temeva le storie che circolavano su Casa Hoffman: con un calcio sfondò la porta, che scardinata piombò sul pavimento scacchiato con un botto, sollevando densa polvere. Se non fosse stato per la decadenza in cui versava la dimora, sarebbe stata ancora una casa magnifica: nessuno aveva mai portato via uno spillo, alle pareti c’erano ancora stupendi dipinti opacizzati da sessant’anni di polvere, il pianoforte giaceva inutilizzato e imbozzolato di ragnatele nel salotto, bottiglie di liquore si intravedevano oltre il vetro sporco delle vetrinette. Le stanze erano avvolte in una penombra densa che costrinse il ragazzo ad estrarre la torcia elettrica, con il cui fascio lucente fece scintillare gli occhi di vetro di innumerevoli animali impagliati che parevano fissarlo stolidamente da sopra i mobili o dalle pareti. Eisinger sorrise soddisfatto: anche se non avesse trovato la famosa scacchiera aveva visto che in quella casa c’era moltissima altra roba di valore sulla quale mettere le mani. E pensare che quegli idioti fifoni di Thülde avevano avuto per anni quel tesoro sotto al naso, ma si erano lasciati intimidire da qualche ridicola favola nera. Peggio per loro e meglio per lui, pensò con decisione. Ispezionò a fondo la casa, spostandosi dal salotto alla cucina e da lì alle stanze degli hobby, con il tavolo da biliardo, e alle sale della servitù. Tutto era ammantato da polvere e ragnatele, ma non mancava niente, c’era persino l’argenteria nei cassetti. Risalì la cigolante scala di legno che conduceva alle camere da letto. Aprì una delle porte e si trovò di fronte un uomo che lo fissava con durezza implacabile. Urlò, ma si rese conto che era solo un ritratto di Gustav Hoffman in divisa da SS appeso alla parete. Più calmo, Eisinger tornò nel corridoio e da tergo udì un crepitio legnoso, come quello di una porta che viene appena aperta.

Raggelando girò su se stesso, la torcia puntata in avanti. Il corridoio era buio e completamente vuoto, ma in alto qualcosa oscillava: una cordicella che pendeva da una botola sul soffitto, la quale era leggermente abbassata.

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