Capitolo 1

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Nuvole grigie e pesanti rivestono il cielo di Roma, come una vecchia coperta impolverata.
È l'11 di Dicembre, mentre cammino, il freddo feroce dell'inverno si insinua sotto il tessuto spesso della mia felpa, intorpidendo i muscoli fino a raggiungere le ossa.
Mi accendo una sigaretta e mi guardo attorno: foglie secche, leggere e aggraziate, danzano nel vento esibendosi in leggiadri vortici d'aria, una lieve foschia rende i contorni di ogni cosa confusi e persino il Tevere, che scorre violento e burrascoso sotto Ponte Sant'Angelo, sembra riflettere perfettamente il mio umore irrequieto.

Una goccia d'acqua mi bagna il viso, piove.

Decido di sollevare in cappuccio sulla testa per evitare che i miei capelli, che ora tengo lunghi fino a sotto la spalla, si bagnino, procurandomi così la rottura di un ennesimo raffreddore.
Una volta raggiunto il lungo Tevere mi fermo un momento, senza una ragione particolare e mi poggio alla balaustra di marmo sporco, per osservare come la città va in crisi per un po' di maltempo.
Il traffico avanza lento a causa dell'asfalto bagnato, qualcuno si spazientisce e il suono dei clacson si unisce al grido acuto delle sirene delle ambulanze in giro.
Altri invece restano impassibili, magari più abituati a guidare nel caos giornaliero della mia amata Capitale oppure, semplicemente stanchi di stare a contestare qualcosa che non potranno mai cambiare.
Espiro un'ultima boccata di fumo mentre la pioggia, che ora cade ad un'intensità maggiore, mi bagna da capo a piedi, rendendo vano ogni tentativo di preservare la mia salute.
Non mi importa, oramai sono abituato a non tenere in considerazione le sensazioni, così anche questa volta ignoro il tremolio che prende a scuotere il mio corpo a causa del freddo.
Getto a terra la cicca, spegnendola con il piede e riprendo la mia camminata.

Infilo le mani nelle tasche, sono gelide.

Quest'anno il meteo ha annunciato che probabilmente nevicherà anche qui, nella mia amata capitale, il che è strano, molto strano, poiché, nei miei 25 anni di vita, ricordo di averla vista completamente imbiancata solo un paio di volte.
Un giorno, forse sette o otto anni fa,  il cielo era di un grigio perlaceo, il silenzio che c'era in giro era assolutamente innaturale rispetto alla vitalità a cui sono abituato e un gelo che sapeva di qualcosa di speciale riempiva ogni vicolo della città... c'era come una sorta di trepidazione nell'aria: i bambini rimanevano incollati alle finestre, i loro occhi speranzosi rivolti verso l'alto, gli adulti sbuffavano, prevedendo già la lunga serie di complicazioni che ci sarebbero state se la neve fosse arrivata davvero e i ragazzi, giovani e sognatori come lo ero io, non aspettavano altro che la chiusura delle scuole per avere un po' più di tempo libero da impiegare nelle loro attività preferite.
Ricordo il mio stupore quando un primo fiocco candido si è posato sulla punta del mio naso, rivolto all'insù... se chiudo gli occhi, immagino la meraviglia dipinta nei suoi occhi di ghiaccio e poi ricordo la gioia, l'euforia di entrambi quando il manto bianco ha cominciato ad allargarsi sotto i nostri piedi, tanto che ci siamo messi a saltare e volteggiare prendendoci per mano (si, una scena un po' alla Heidi, lo ammetto) come due idioti. Ah, quanto ci siamo divertiti a lanciarci a vicenda quella miscela di acqua gelata e fango, inzuppandoci tutti e sporcandoci da capo a piedi.
Sorrido tra me mentre nella mia mente rivedo i suoi capelli, biondi e ondulati, ornati di piccoli, istantanei cristalli bianchi che facevano risaltare il colore glaciale dei suoi occhi e risento l'eco distante delle nostre risate, così spensierate e ingenue che mi viene la malinconia al solo pensiero.
Già, poi ricordo anche quanto mia mamma si è incazzata quando mi sono presentato davanti alla porta di casa in quelle condizioni, ho veramente temuto che non mi avrebbe fatto più rientrare e, infine, mi tornano in mente le serate passate, per l'intera settimana successiva, a parlare al telefono con lei, perché la nostra bravata era costata a entrambi una brutta influenza, che ci aveva costretti a letto mentre tutti si divertivano fuori.

Mi manchi, sai.

Mi manca toccare i tuoi capelli morbidi e biondi come un campo di grano nel periodo della mietitura, mi manca sentire il profumo di lavanda sulla tua pelle candida subito dopo la doccia, mi mancano i tuoi occhi, le tue iridi di quel colore così freddo da mettere in soggezione tutti, ma che per me assumevano sempre una sfumatura speciale, capace di riscaldarmi anche durante gli inverni più lunghi. Mi mancano le cazzate, la felicità semplice e genuina che provavo anche solo stando nella stessa stanza in cui eri tu, il tuo modo di essere così sicura di te ma allo stesso tempo tanto fragile, che a volte mi veniva voglia di stringerti tra le mie braccia e non lasciarti più andare… ma avrei dovuto capirlo allora che tu in realtà non avevi bisogno di protezione, perché dalla vita eri già stata temprata da tempo e sapevi benissimo come vedertela da sola, che in verità quello stupido, quello debole e anche un po' ingenuo ero io ed è proprio per questo che ho dato per scontato che tu ci saresti stata per sempre.

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