20 IL CONFRONTO

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Ernik stava ripensando alla sua cattura.

Stava combattendo, quand'era successo. Era stato uno stupido: convinto di avere le spalle coperte da Dazira, si era spinto un po' troppo oltre nella linea nemica e, ad un certo punto, voltandosi indietro, non aveva più visto la figura della ragazza, ma soltanto una moltitudine incredibile di nemici.

In pochi attimi, si rese conto che non ce l'avrebbe fatta. Che sarebbe morto.

Preso dalla frustrazione, aveva iniziato a combattere con più foga, uccidendo quanti nemici possibili.

Poi aveva sentito un urlo, qualcuno che aveva dato un ordine. Forse era un ufficiale loasiano che aveva stabilito la sua cattura.

Ma furono solo pochi attimi, perché, qualche secondo più tardi, qualcosa di metallo gli aveva colpito la nuca e lui non aveva più capito niente. Tutto era sceso nel buio assoluto.

Si era risvegliato ore dopo, rinchiuso nelle rovine di quello che doveva essere un vecchio casolare, con due guardie poste proprio davanti all'entrata ed una corda stretta ai polsi dietro la schiena.

Non sapeva con esattezza quanto tempo fosse passato, né quanta strada avesse percorso o quanto fosse grave la sua situazione. Ma di una cosa era stato subito certo: lui, il prigioniero di guerra, non l'avrebbe fatto mai. Piuttosto sarebbe morto nel tentativo di fuggire.

L'ambiente era gelido e le mura in pietra facevano filtrare l'umidità all'interno della stanza. Sotto di lui, un disconnesso pavimento in pietra sul quale era cresciuto il muschio da ormai diversi anni.

Ernik aveva iniziato a tremare, un po' per il freddo, un po' per la tensione. Se fosse rimasto a lungo lì dentro si sarebbe di certo ammalato.

In quel momento, una persona si era affacciata all'entrata. Un uomo alto, con una divisa graduata ed un portamento austero. «Si è svegliato?» aveva domandato.

«Sì, signore!» avevano risposto le guardie.

L'uomo aveva annuito in risposta ed aveva ordinato di chiamare un certo Gescor prima di entrare a passo deciso nella cascina abbandonata.

«Ti starai chiedendo perché sei vivo, cavaliere» aveva esordito l'ufficiale loasiano. Ma, a giudicare da ciò che lo aspettava, Ernik, in quel momento, avrebbe preferito essere morto.

«Sei vivo perché voglio inserire uno dei miei. Un infiltrato tra le linee nemiche... ed ho bisogno di un'autorità interna...»

Ernik aveva scosso il capo con decisione. «Io non sono un'autorità» aveva sottolineato rabbiosamente. «Né un doppiogiochista!»

«Non sei tu ad aver suonato la ritirata?» aveva insistito ancora, in tono accondiscendente, con una risata di scherno nella voce.

Ernik non aveva risposto e, proprio in quel momento, nella stanza, era entrato un altro uomo, ancora più alto dell'ufficiale in comando. Era un omone massiccio, con i capelli rossi e la barba curata; le cicatrici gli solcavano gli zigomi e gli angoli della bocca, ma c'era una cosa, fra tutte, che aveva fatto rabbrividire Ernik. Una cosa che Gescor – l'omone – aveva in mano: una pinza di metallo che stringeva nella sua morsa una brace ardente.

E, in un solo istante, Ernik aveva capito che sarebbe stata una nottata lunga.

Gescor, infatti, su ordine del generale, aveva più e più volte affondato nelle sue carni – sul petto e sulla schiena – quel maledettissimo tizzone infuocato, nel tentativo di estrapolare informazioni militari e di convincerlo a portare con sé un infiltrato, spacciandolo per suo fratello prigioniero di guerra.

LA QUINTA LAMA (II) - La guerra del demoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora