21 - Curare

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Passarono tre giorni e di Christian Williams neanche l'ombra.

Io continuai a lavorare, non incontrandolo mai. Neanche per sbaglio. Non chiesi di lui a nessuno, neanche al signor Lewis. Dovevo imparare a farcela anche senza la sua presenza.

Ogni mezz' ora fissavo il mio cellulare in attesa di un segno di vita, ma invano. Continuavo a promettermi che avrei smesso, ma ci ricascavo ogni volta, quasi come una cosa dalla quale si è dipendenti, una droga.

«Non puoi andare avanti così» mi ripetevano Paul e Susan, quelli che erano i miei migliori amici. Sapevo che anche loro stavano male nel vedermi in quello stato di completo abbandono. Smisi di truccarmi, di vestirmi stando attenta ad abbinare giustamente i colori e per tutti i tre giorni non mi lavai i capelli. Sembravo The Walking Dead.

Per tutto quel tempo continuai a deprimermi, cadendo nell' immenso baratro della tristezza.

Non pensavo che un uomo fosse capace di rendermi così dannatamente fragile.

«Ok, basta» protestò Susan, tirandomi le coperte di dosso «forza, va' a farti uno shampoo. Sui tuoi capelli potrei friggerci delle patatine». Mi catapultò giù dal letto, trascinandomi faticosamente verso il bagno.

«Non voglio» contestai, sedendomi sulla vasca.
«Smettila di fare la bambina. Puzzi» obbiettò lei, aprendo l'acqua per far sì che arrivasse calda.

«Coraggio» mi incitò, facendomi inginocchiare sul pavimento per far sporgere la mia testa all'interno della vasca «ti aiuto io».
Mi passò il soffione a pochi centimetri dalla testa e iniziò a bagnarmi i capelli. Poi chiuse l'acqua e con dello shampoo massaggiò la mia nuca. Chiusi gli occhi per impedire che potessero bruciarmi e per abbandonarmi al tocco rilassante di Susan.

«Non dico che adesso sei bellissima, ma quasi» segnalò la mia amica, guardandomi con i capelli puliti e profumati.
Non sapevo cosa risponderle. Mi aveva appena fatto lo shampoo, come una bambina.
«Grazie» mormorai, e quel sussurro assunse le sembianze di un lamento.
«Non sono abituata a vederti così. Nessuno più riesce a farlo. Sei sempre così allegra, sprizzi energia da tutti i pori. Ritorna come prima» disse faticosamente, guardandomi con lo sguardo afflitto.

Chiamai il signor Lewis, avvisandolo del fatto che quella mattina non sapere andata a lavorare. Mi svegliai con un forte mal di testa. Probabilmente era un segnale del mio corpo che mi consigliava di dormire. In quattro giorni avevo accumulato circa dieci ore scarse di sonno. Edward mi capii, e suggerì di riposare, augurandomi una presta guarigione.

Le mie coinquiline decisero di lasciarmi da sola e preferirono studiare in biblioteca. Forse non sopportavano più la mia faccia da cadavere e il mio continuo silenzio. Così, mi lasciarono sola.
Ma senza di loro, riuscii finalmente a dormire. Non che fossero loro la causa della mia insonnia, ma in questo modo mi sentivo meno osservata. I miei occhi si chiusero per qualche ora, finché non si aprirono di scatto al suono dei pugni che sbattevano contro la porta della mia stanza.

Sgranchii le braccia, allungando i miei muscoli verso l'alto. Misi un piede giù dal letto e il pavimento era freddo, tant'è che causò un brivido al mio copro.
«Chi è?» pronunciai con voce flebile e svogliata.
«Aprimi» urlò la persona dietro la porta.

Era lui.

«Ho addosso un pigiama rosa e bianco e ho i capelli legati in uno strano modo. Qualche ciocca mi copre anche parte del viso. In più, in questa stanza c'è puzza di chiuso, oltre che al disordine» mi lamentai, abbassando sempre di più il tono della voce che non voleva essere sforzata «non vedo perchè dovrei farti entrare».
«Perchè non sei venuta allo Sheraton?» mi chiese, continuando a dare pugni alla porta.
«Ti prego, vattene» mormorai, mentre una lacrima mi rigò il volto. Non avevo mai pianto per lui.
«Smettila di fare la bambina. Aprimi». Mi lasciai cadere sul pavimento.

«Togliti. Sfondo la porta».
Mi allontanai, stanca di controbattere, e Christian fece irruzione nella stanza. Scrutò la mia persona avvolta, effettivamente, dal pigiama rosa e bianco sul pavimento.
«Io...» balbettò. Si sedette anche lui a terra, imitando la mia posizione con le gambe rannicchiate al petto.
«Io voglio abbracciarti» affermò, gettando tutto d'un fiato quello che aveva da dire.

Si avvicinò, accarezzandomi la nuca, profumata allo grazie all'intervento di Susan, mettendosi dietro di me e facendomi spazio aprendo le gambe. Poi attorcigliò le sue braccia intorno al mio corpo, irrigidendole così tanto da tremare.

Restai immobile dinanzi quel gesto così spontaneo e mi abbandonai del tutto in quel momento.
«Come ho potuto far del male ad una persona come te?» sussurrò al mio orecchio, per poi poggiare la testa nell' incavo tra il mio collo e la mia spalla.
«Perdonami. Perdonami per tutto quello che ti ho fatto e per tutto quello che potrei ancora farti. Non vorrei mai farti stare male...» continuò «vorrei vederti sempre sorridere e credimi, mi logora vederti in questo stato e pensare che la causa sia io».

Andò via con lo sguardo basso e incerto, dicendomi: «ti amo, Carmen».

Quel giorno Paul mi fece visita e non potè far a meno di notare il mio volto perplesso e sconvolto.
«Hai sentito Christian?» mi chiese, arrivando subito al punto. Annuii senza parlare e lui si distese sul mio letto, accanto a me. Insieme guardammo il soffitto, mentre lui pronunciava frasi come: "e adesso?», «vuoi perdonarlo?».

Non sapevo quello che volevo e non avevo neanche la forza di pensarci. Avevo capito solo che non potevo continuare a vivere in quel modo e che avevo sprecato tre giorni della mia vita per un uomo che aveva sbagliato.

D'altronde, sbagliare è umano.

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