22 - Voliamo via

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Diedi l'ultimo esame della sessione ad inizio luglio, dopo essermi riappacificata con Christian. Studiai il libro di fisica in sole tre settimane a causa del tempo perso a deprimermi.

Presi ventisette grazie al fantastico uomo che avevo al mio fianco il quale, come per ogni esame, mi aiutò a ripetere tutte le sere, al termine del mio turno allo Sheraton.
Apprezzavo sempre di più le piccole ma quotidiane azioni che faceva per aiutarmi. Era gentile e paziente, molto paziente.
Non ero facile da trattare. Sapevo innervosirmi in men che non si dica e non capivo come facesse a sopportarmi.

La mia estate stava iniziando ufficialmente. I miei programmi erano tornare a Cuba, sicuramente, fare un viaggetto all'estero e visitare Boston, della quale conoscevo esclusivamente Harvard, Kirkland Street e Adams House.

E sapevo già chi mi avrebbe accompagnato in tutto questo.

Incontrai Christian in un bar per la prima volta. Ci eravamo sempre visti allo Sheraton, mai da nessun'altra parte. Era proprio vero: avevo del tempo per me.

Ci sistemammo su delle sedie tipiche di qualsiasi bar: alte e sulle quali era difficile sedersi, anche a causa del mio mio scarso metro e sessantacinque. Ordinammo due birre, poiché erano appena le sei del pomeriggio, e tra un sorso e l'altro buttai fuori: «vuoi venire a Cuba con me?».

Christian sgranò gli occhi, posando sul bancone il suo bicchiere di birra, causando un forte rumore. Poi riprese a guardarmi, con la faccia mista tra voglia di gridare "si" e incredulità.
«Ho sentito bene?» mi chiese.
«Riposta netta. Si o no» gli dissi decisa, senza dargli troppe spiegazioni.
«Certo che si!» esclamò entusiasta «dammi il tempo per organizzarmi con lo Sheraton e poi sarò tutto per te». Lo abbracciai, ancora con la mia birra tra le mani. Mi aveva reso la persona più felice del mondo.

La mattina seguente mi recai all'agenzia di viaggi a Krikland Street. Si chiamava "Pangea". Prenotai due biglietti, Boston - Havana, volo diretto. Quattro ore.

Quando la stampante li tirò fuori, riuscii a sentire l'odore della carta a distanza di metri. Poi me li posero tra le mani e quasi tremavano. Stavo per ritornare a Cuba, a casa mia, dai miei genitori, dai miei fratelli, da mia nonna. Avrei rivisto i miei vicini di casa, i pochi amici che avevo lì, ma anche il calzolaio, il fruttivendolo, il barista del mio quartiere. Era quasi un anno che mancavo e quasi non ricordavo più i colori di quel posto.

«Ho fatto i biglietti» avvisai Christian per telefono per fargli tornare alla mente l'impegno preso.
«Sono felice» rispose. Lo ero anche io e lui era, in parte, l'artefice.

Il giorno della partenza era ormai imminente e la trepidazione cominciò a farsi padrona del mio corpo. Susan era tornata a Londra per passare l'intera estate con la sua famiglia, Cristina si concesse una vacanza alle Hawaii e Isabel si spostò al nord di Boston per incontrare degli amici che non vedeva da tanto.

Ero rimasta da sola, tra la camera a soqquadro e i vestiti che pregavano per essere piegati in modo ordinato nella mia valigia.

Legandomi i capelli con una matita e rimboccandomi le maniche, mi diedi da fare e sistemai il caos che regnava sovrano tra quelle quattro mura. Rifeci il mio letto, cosa che non facevo da una vita e sistemai anche quelli delle mie coinquiline. Spruzzai uno spray per l'intera stanza: sapeva di lavanda. Spolverai tra le mensole, nell'armadio, lavai il pavimento e sistemai la mia scrivania. Il risultato? Ero una donna da sposare.

A fine giornata chiamai mia madre.
«Mi raccomando, fammi trovare qualcosa di buono» le dissi, in modo che non avrebbe potuto tergiversare sulle cosa da cucinare.
Poi feci un secondo giro, sentendo Christian. Erano le due di notte, e la sua voce mi apparve stanca come non mai. Parlava utilizzando un tono basso, quasi inesistente e riuscivo a sentire gli sbadigli che sembrava volesse nascondere ma, a quanto pare, gli riusciva male. Lo congedai dopo due minuti, consapevole della sua stanchezza, e nel salutarlo gli ricordai di essere puntuale l'indomani.

Mi svegliai d'improvviso alle cinque di notte, saltando dal letto, sudata e tremolante. Accesi da luce sul mio comodino, e presi il cellulare per controllare l'ora. Sare dovuta tornare nel giro di tre ore. Cercai di ricordare il motivo di quel risveglio tormentato, ma nella mia mente c'era il buio.

Scesi dal letto, misi addosso qualcosa di decente e mi diressi nella sala comune di Adams House, aperta anche di notte. Mi accorsi di non essere sola già prima di entrarvi. C'era Paul, sdraiato goffamente su un divano giallo canarino. Orribile.

«Non si dorme?» Paul sobbalzò dalla posizione scomposta in cui era, voltandosi nella mia direzione.
«Potrei fare la stessa domanda a te» rispose, facendomi posto vicino a lui. Afferrai il suo gesto, avvicinandomi.
«Domani parto» Paul mi guardò con estrema tristezza.
«Non dimenticarti del tuo amico che resterà solo come un cane a Boston» mi raccomandò «chiamami quando arrivi all'aeroporto, a Cuba, a casa tua, nella tua stanza». Sorrisi ad un Paul versione padre e lo abbracciai.

Mi sarebbe mancato.

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