CAPITOLO 8

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Il sole illumina la mia stanza, gettandomi qualche riflesso in faccia.
Sento gli uccellini cinguettare e l'odore della pasta al forno mi pervade le narici.
Mi sono svegliata da circa tre ore e mi trovo sul balcone a leggere un libro, con una tazza di the in mano.
La testa e la fronte mi fanno ancora male per i colpi ricevuti ieri e ho ancora qualche livido, ma per il resto riesco a camminare e a muovermi senza che urli per il dolore.
Ieri sera, mentre ero sul divano, sentivo i miei muscoli andare in pezzi per le contusioni.
Quando stamattina mi sono alzata i miei genitori, vedendomi, si sono spaventati.
Mia madre si è messa subito a piangere, mentre mio padre mi chiedeva urlando cosa fosse successo.
Gli spiegai l'accaduto rimanendo impassibile.
Mio padre si infuriò e chiamò la scuola denunciando Rocco e il suo gruppetto, dicendo che mi avevano picchiata e sbattuto la testa contro il muro con molta violenza.
È rimasto al telefono per tutta la mattina urlando come un forsennato mentre mia madre piangeva, abbracciandomi.
So che non faranno nulla per rimediare.
Non li sospenderanno né altro.
Solo una lavata di capo e nient'altro.
Durante tutto questo io ero ferma in mezzo alla cucina, senza curarmi delle loro reazioni esagerate e dopo un po' sono uscita in balcone.
Non sopportavo più le loro urla.

Mia madre mi chiama per il pranzo, così distolgo lo sguardo dal libro che stavo leggendo e la seguo verso la cucina.
«Abbiamo chiamato la scuola e stanno provvedendo» dice mio padre indicando il telefono fisso sulla credenza «se l'avessi saputo prima li avrei aggiustati io quei...».
«Lascia stare, caro. Dopo pranzo la dobbiamo accompagnare in ospedale. Hai visto come è ridotta? Ha bisogno di essere medicata» lo interrompe mia madre tentando di calmarlo, invano.
Non faranno nulla per aiutarmi.
Rocco è il figlio della vicepreside ed è intoccabile, così come i suoi amici.
«Non ne ho bisogno; mi sono già messa le bende e i lividi sono scomparsi» le rispondo mettendomi in bocca una forchettata di pasta.
«Ti hanno fatto altro oltre a quello che ci hai detto?» mi domanda mio padre con sguardo torvo.
«Mi hanno tagliato la guancia, ma non è niente di che. Ci ho messo sopra un cerotto» gli rispondo indicando il viso.
«Quel cerotto ti copre quasi mezza faccia. Toglilo così vediamo quanto è profondo il taglio» mi intima mio padre, così lo tolgo e lo butto nel secchio.
I miei genitori si guardano stupiti, mentre io continuo a mangiare come se niente fosse.
«Io li denuncio alla polizia» dice mia madre alzandosi.
Non glielo posso permettere. Se gli raccontano quello che ho fatto arresteranno anche me e poi... preferisco vendicarmi da sola.
«Lascia stare mamma. Non importa».
«Stai scherzando spero! Ti hanno quasi uccisa di botte e tu non vuoi che li denunci?» mi dice mia madre, incredula.
«Io non scherzo mai! Non farlo».
«Ne sei sicura? Dovresti andare in pronto soccorso per quello che ti hanno fatto» risponde mio padre, ancora seduto a tavola.
«Non voglio che li denunci e non voglio andarci in ospedale. Sto bene!».
«Sei proprio testarda!» mi dice mia madre, guardandomi storto «Almeno datti una sistemata. Dobbiamo andare al funerale di Malia oggi, ricordi?».
Grandioso.
«Ah già, me n'ero dimenticata. A che ora c'è?».
«Tra un'ora e mezza. Hai ancora tempo per lavarti e sistemarti i capelli» mi risponde mio padre.
Lascio il piatto ancora pieno e vado verso il bagno per farmi la doccia.
Dopo essermi lavata vado nella mia camera, per scegliere i vestiti da mettere per il funerale.
Ovviamente non saranno colorati.
Non lo sono mai.
Prendo un paio di jeans neri un po' strappati, con una maglietta larga a maniche corte nera e delle scarpe nere.
Torno in bagno per sistemarmi alla meglio i capelli.
Cerco di coprire le ferite come meglio posso ma non ci riesco, così fascio la fronte con una benda e metto un cerotto sulla guancia.
Esco e vado all'ingresso dove ci sono i miei genitori che mi aspettano impazienti.
«Non puoi venire ridotta così. Sembri la sopravvissuta di un terremoto» dice mio padre, squadrandomi.
«E come faccio secondo te? Non posso mettermi un cappello» gli rispondo alzando la voce.
«Ora basta! Andiamo o faremo tardi» ci rimprovera mia madre e usciamo da casa velocemente.
Mentre entriamo in macchina vediamo i genitori di Malia uscire dal portone vestiti di nero, addolorati per la morte della figlia.
Cerco di evitare i loro sguardi e salgo in macchina, mettendomi le cuffie per ascoltare della musica durante il viaggio.
Perché non sono riuscita a fare niente?
Chi ha potuto fare una cosa del genere? Chi?
Dopo mezz'ora di viaggio arriviamo alla chiesa dove si sarebbe tenuto il funerale e vedendo in lontananza Marica e Elis, scendo velocemente dalla macchina, dirigendomi verso di loro.
Stanno piangendo disperate.
Perché non piango anche io?
«Eurus che ti è successo alla testa? E perché hai quel cerotto così grande sulla guancia?» mi domanda Elis tra i singhiozzi.
«È una lunga storia. Voi come state?».
«Come vuoi che stiamo? La nostra migliore amica è morta. Secondo te cosa dovremmo fare? Ballare forse?» mi dice sarcasticamente Marica.
«Perché ce l'avete tutti con me? Che cosa vi ho fatto?» le rispondo a mia volta.
Rimangono un attimo in silenzio, guardandosi.
«Perché forse l'hai uccisa tu!» mi risponde Elis dopo qualche minuto e prendendo Marica per mano, va dai genitori di Malia.
«Stai scherzando spero?!» le urlo dietro.
Delle persone intorno mi guardano allarmate e abbasso meccanicamente la testa.
Non potrei mai uccidere una mia amica.
Non avrei mai potuto uccidere Malia.
Non lei.
«Eurus vieni qui!» mi grida mio padre con un gesto della mano.
Gli corro incontro.
Entriamo in chiesa e ci sediamo all'ultimo banco.
La funzione finisce prima del previsto e il prete chiede se qualcuno vuole dire qualcosa in onore di Malia.
Molte persone si alzano comprese le amiche di Malia, così mia madre mi fa cenno di alzarmi per andare a dire qualcosa anche io.
Io non voglio ma lei continua ad insistere così quando arriva il mio turno, mi preparo.
Mi alzo e vado verso il microfono, mentre tutti i presenti mi guardano, sorpresi dal mio aspetto trasandato.
«Io vorrei dire solo una cosa» dico schivare domi la voce «Beh ecco... mi dispiace».
Dopo aver parlato scendo le scale di corsa e sento la gente che mormora, domandandosi che intendessi dire con quelle parole e del perché fossi conciata in quel modo così disordinato.
Esco dalla chiesa con la rabbia che mi esplode dentro l'anima.
Ho bisogno di sfogarmi.
Mi dirigo verso la macchina e mi siedo sul sedile, aspettando l'arrivo dei miei genitori.
Sento delle grosse lacrime scendere dai miei occhi.
Mi stupisco.
Io non ho mai pianto per cose del genere.
Non ho mai pianto per la morte di qualcuno.
Ma adesso mi sento in colpa.
Non ho potuto e non ho fatto niente per salvarla.
Glielo avevo promesso.
Glielo avevo giurato.
Ho cercato di mantenere quella promessa che ci eravamo fatte quando avevamo 7 anni.
Ma con quello che è successo dopo... Non l'ho vista per quattro anni e quando ci siamo riviste... è cambiato qualcosa.
Forse lei sapeva. Ma non si è mai allontanata da me.
Non lo ha mai voluto.
Dopo pochi minuti vedo uscire una folla di persone, con la bara di Malia davanti al corteo.
Mi asciugo le lacrime ed esco dalla macchina.
Malvolentieri mi unisco a loro per seguire la bara fino alla macchina che la trasporterà al cimitero.
Quando tutto finisce io e i miei genitori entriamo in macchina per tornare a casa, ma qualcosa mi blocca: in fondo alla strada ci sono Elis e Marica che mi guardano arrabbiate, con accanto Jenna e Samantha.
Jenna mi sorride sarcasticamente e se ne va con accanto le sue, cosiddette, nuove amiche.
Entro in macchina, cercando di ignorarle e mi sdraio sul sedile con un forte mal di testa.
«Ci ha fatto fare una figuraccia! Come hai potuto lasciare la chiesa così?
Ora siamo lo zimbello di tutto il quartiere ed è solo colpa tua!» mi grida mia madre e mi tira uno schiaffo.
Non lo ha mai fatto prima d'ora e mi tocco la guancia dolorante.
«A voi importa solo quello che pensano gli altri. Non vi importa niente di quello che penso io» le rispondo urlando.
Mia madre sta per rispondermi ma ci rinuncia e si gira verso mio padre.
Lui si limita a uno sguardo severo poi si gira verso il volante, accende la macchina e si mette a guidare verso casa.
«Oggi c'è la seduta dallo psicologo per il controllo della rabbia. E ci andrai che tu lo voglia o no» mi si rivolge mio padre improvvisamente, rompendo il silenzio.
Non gli rispondo. Non mi importa.
«C'è tra una mezz'ora ma io non ti accompagno. Ci dovrai andare da sola».
«Devo proprio andarci?» rispondo borbottando.
«Si ci devi andare! Fine del discorso» mi dice mio padre mentre parcheggia la macchina in garage.

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