CAPITOLO 19

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«Che cosa succede?» chiedo ai miei genitori.
Si guardano preoccupati per poi girarsi verso di me.
«Sono venuti dei poliziotti a casa quando tu non c'eri e ci hanno fatto molte domande. Quando hanno scoperto che ti abbiamo adottata hanno chiesto se hai mai avuto una reazione o un comportamento violento o se...».
Mia madre non osa andare oltre e scoppia a piangere.
Mio padre cerca di consolarla.
«...E se hai mai provato a far del male a qualcuno. Consultando la tua cartella dell'adozione hanno scoperto che sei scappata e che hanno provato a recuperarti. Tutto ciò è davvero assurdo!» esclama mio padre.
Dopo qualche minuto ricomincia a parlare.
«Abbiamo capito che ti serve aiuto ma non ti manderemo di nuovo da una psicologa. Ci dispiace per quello che è successo a quella donna, ma non andava bene per te. Così ne abbiamo trovata un'altra specializzata per la tua età».
Sono troppo stanca per reagire, così accenno un sorriso e metto la testa sul tavolo.
«Noi usciremo per un paio d'ore così quando arriverà potrete parlare da sole» continua mia madre che si è ormai calmata.
Si alzano dal tavolo e mia madre mi dà un bacio sulla testa.
Dopo aver preso la giacca mi salutano ed escono da casa.
Aspetto qualche secondo poi alzo la testa e cerco di mettere a fuoco ciò che c'è davati a me ma non riesco a vedere.
Mi alzo barcollando appoggiandomi al tavolo ma cado a terra.
Che mi sta succedendo?!
Cerco di rialzarmi e dopo vari tentativi riesco a mettermi in piedi e vado verso la cucina.
Mi preparo un mucchietto di insalata e un panino con il prosciutto per poi mettermi seduta sulla poltrona in salone e accendo la TV.
Mentre mangio penso a come potrebbe essere questo incontro.
L'ultima volta non è stata una bella esperienza.
Spero che almeno lei mi potrà aiutare...
Dopo qualche minuto sento suonare al campanello così mi alzo e vado ad aprire la porta.
Davanti a me vedo una donna giovane e deduco sia la psicologa venuta per la seduta.
«Ciao sono Clarisse. Tu devi essere Eurus» mi dice tendendomi la mano.
Gliela stringo e la invito ad entrare, chiudendomi la porta alle spalle.
La faccio accomodare in salotto mentre prendo il piatto con gli avanzi, che rimetto nel frigo.
Sembra gentile.
«Se vuoi puoi darmi del tu» asserisce e faccio un segno di assenso.
«Mi vuoi dire il perchè di questo incontro?» mi domanda nuovamente.
«Che ti hanno detto i miei genitori su di me?» le chiedo a mia volta.
«Da quanto mi hanno detto hai avuto un po' di problemi a scuola e con i tuoi compagni di classe. È così?».
«Si credo sia così».
«E mi hanno detto inoltre che hai sempre avuto degli attacchi d'ira. Mi sai fare qualche esempio?».
«Ho picchiato un ragazzo che si è spacciato per il mio migliore amico».
«E c'è un motivo per cui lo ha fatto?».
«Non ne ho proprio idea» mento.
Si ferma un attimo come per riflettere.
«Sai perchè sono qui?» continua lei.
«Forse. Faccio paura ai miei genitori. E alle mie amiche. E il mio carattere fa davvero schifo secondo le altre persone. Anche secondo me».
«Come mai sei così? Te lo sei mai chiesto?».
«Me lo sono chiesto molte volte, ma in realtà conosco il motivo e... preferisco non dirlo».
«Non voglio obbligarti a dirmi ciò che non vuoi ma se non mi dici niente non posso aiutarti».
Resto in silenzio mentre mi scrocchio le dita per il nervosismo.
Merda! E ora che cosa le dico? Forse dovrei dirle la verità!
C'è il segreto professionale tra psicologo e paziente?
Spero di sì.
«Ho fatto del male a molte persone; fisicamente e sentimentalmente. Alle miei amiche, ai miei genitori, a...» smetto per un momento di parlare ma riprendo subito «Ho anche colpito un poliziotto».
«E perchè lo avresti fatto?».
«Beh... mi ha inseguita ma non sapevo fosse un poliziotto così mi sono difesa».
«E sapevi come ferire una persona a 10 anni?» chiede preoccupata.
«I miei veri genitori guardavano molti film polizieschi e mi costringevano a guardarli. A dir la verità non guardavano altro. Perchè pensi che io sia scappata?».
«Pensavo che i tuoi genitori fossero morti e che ti avessero affidata ai servizi sociali!» replica la donna.
«Nel quartiere dove vivevo io i servizi sociali non intervenivano spesso. Non servivano. In tutto l'isolato la mia era l'unica famiglia che aveva problemi.Così sono scappata».
«E come hanno fatto a trovarti?».
«Mi conoscevano tutti lì. Facevo sempre a botte con gli altri bambini. Per il semplice gusto di farlo.
Comunque, hanno chiamato i servizi sociali e conoscendo la mia famiglia non li hanno neanche avvertiti. Tre giorni dopo li hanno trovati morti».
«E sai come sono morti? Te lo hanno detto?».
«No non me lo hanno mai detto. Non mi hanno mai specificato come sono morti i miei genitori. Quando l'ho saputo per me è stato un grande sollievo».
«E poi cosa è successo?».
«Mi hanno portata in orfanotrofio ma sono scappata di nuovo. Ci trattavano malissimo e ci facevano lavorare di continuo. Alcuni bambini venivano puniti».
«Ti hanno mai punita?».
«No mai. Non ho mai capito il perchè. Avevo un carattere molto irascibile e me la prendevo spesso con loro o gli rispondevo quando mi dicevano qualcosa, ma non hanno mai provato a picchiarmi o a rispondermi. Semplicemente se ne andavano.
Poi sono scappata e hanno chiamato la polizia. Molti bambini sono scappati e di loro non gliene è mai importato nulla ma quando sono scappata io... Era come se fosse scappata una belva da un circo».
Improvvisamente sento nuovamente il campanello suonare.
Mi scuso con Clarisse e vado ad aprire la porta.
Vedo davanti a me la madre di Malia con molte valigie sul pianerottolo.
«Ciao Eurus. Sono solo passata per dirvi che noi ce ne andiamo. Ci trasferiamo in un'altra città» mi dice mestamente.
«Mia madre e mio padre non ci sono ma torneranno presto. Se vuoi ti avverto quando arrivano».
«Non importa li chiamerò io. Addio Eurus» mi risponde con freddezza e se ne va.
Saluto con un cenno della mano i nostri vicini e richiudo la porta.
«Credo di dover andare» esclama ad un tratto Clarisse, guardando l'orologio.
«É stato un piacere» le rispondo tendendole la mano.
Lei la stringe, mi sorride e se ne va.
Richiudo la porta dietro di me e ritorno a mangiare il mio panino.

«Oggi devi uscire. Se non lo farai sai cosa succederà» mi dice il bambino dai folti capelli neri.
Mi alzo di malavoglia dal letto e lo seguo.
Ho cercato di rimandare questo momento il più a lungo possibile, ma non ho potuto fare di più.
O me o loro.
Ormai è notte fonda e tutti dormono, anche i sorveglianti.
Scivoliamo per i corridoi bui cercando di non far rumore e alla fine arriviamo all'entrata del dormitorio; qui ci nascondiamo sotto il letto di un bambino e aspettiamo.
Dopo aver sentito l'orologio suonare i dodici rintocchi della mezzanotte, vediamo una bambina alzarsi dal suo letto.
«Muoviti» mi dice il bambino strisciando verso l'uscita.
Lo seguo a mia volta facendo attenzione a non far rumore con le scarpe.
Arriviamo ai bagni.
«Fai quello che ti ho detto. Al resto ci penserò io» dichiara sussurrando.
Lo specchio nel corridoio di fronte a me ha uno strano riflesso rosso.

È sabato mattina e sono stesa sul letto, fissando il soffitto. 
La serranda è abbassata rendendo la stanza completamente scura.
Ieri ho raccontato tutto quello che mi ha fatto Zack alle mie amiche e ne sono rimaste indignate.
Perché sono così?
Cosa ho fatto di male?
Sento il telefono squillare e pur di farlo smettere rispondo.
«Eurus come stai?»mi chiede una voce dall'altro capo del telefono.
Alzo gli occhi al cielo, stizzita.
«Come al solito. Perchè mi hai chiamato Jenny?».
«Sono tua cugina, mi pare normale. Io e Emma verremo per il tuo compleanno. Parleremo faccia a faccia così mi dirai cosa...».
Riattacco prima che lei finisca di parlare.
Jennifer e Emma sono gemelle ed hanno un anno in più di me.
Sono cugine di sangue e sanno che i miei genitori sono morti e credono che io ne sia rimasta sconvolta.
Come tutti gli altri.
Mi alzo dal letto per andare a prendere un bicchiere d'acqua.
In cucina incontro i miei genitori che stanno facendo colazione.
«Siediti e mangia qualcosa. Sei pallida e dovresti uscire oggi pomeriggio. Un po' d'aria ti farebbe bene» mi dice mia madre, indicando la sedia di fronte a lei.
«Grazie ma non ho voglia di uscire» le rispondo sedendomi e versando del tè in una tazza.
«È servita la seduta di ieri? Non possiamo cercare un'altra psicologa» domanda mio padre mentre prende una fetta di pane con la marmellata.
«Si credo di si».
«Devi uscire. Non fai altro che andare a scuola e tornare a casa. Devi uscire con le tue amiche» replica mia madre.
Chiudo gli occhi mentre prendo la tazza in mano.

Sono di fronte casa mia, aspettando Rachel.
Mia madre mi ha costretto a chiamare le mie amiche per uscire insieme a mangiare una pizza.
Hanno accettato.
Non ne avevo voglia ma dovevo, così mi sono lavata, vestita e sono scesa per aspettare Rachel e incontrarci tutte insieme alla pizzeria di fronte alla nostra scuola.
Sono appoggiata ad una panchina quando vedo Rachel camminare verso di me.
Le vado incontro salutandola con la mano.
Appena mi vede mi chiede se sto bene.
Le rispondo di sì. Credo...
Comincia a parlarmi di come potrei festeggiare il mio compleanno e io cerco di ascoltarla anche se penso ad altro.
Arriviamo subito davanti alla pizzeria dove Madison e Luce hanno già preso un tavolo; si alzano dalle sedie, salutandoci.
Ci sediamo e guardiamo i menù.
Le altre cominciano a parlare tra loro mentre io continuo a guardare il menu.
Dopo qualche minuto un cameriere si avvicina e prende le nostre ordinazioni.
«Come vuoi festeggiare il tuo compleanno?» mi chiede Madison dopo aver ordinato.
«Credo che starò con la mia famiglia, ma a pranzo possiamo andare al fast food che sta in centro e poi fare una passeggiata». 
«Saremo solo noi quattro?».
«Se volete posso invitare anche Madison e Elis, ma non si se verranno. Ma non voglio invitare nessun altro».
Si guardano tra di loro e passano di nuovo lo sguardo su di me.
«E Zack?».
Aggrotto la fronte con fare interrogativo.
Si guardano di nuovo tra di loro e il mio sguardo cade su Maddy che guarda a terra.
«Devi dirmi qualcosa?» le domando alzando un sopracciglio.
«Ieri mi ha chiamata e mi ha chiesto se poteva darti il regalo per il tuo compleanno» mi dice Madison.
«Non dovresti accettarlo» aggiunge Rachel «Ti ricordi cosa è successo con Jacopo?».
«Non lo accetterò. C'è qualcosa in lui che mi è familiare; e questo è un male» rispondo a mezza bocca.
Mi stanno per chiedere che cosa intendessi ma arrivano i piatti e cominciamo a mangiare.
«Come va con Tom?» chiedo a Rachel.
Lei arrossisce subito e abbassa gli occhi.
«Mi ha chiesto di uscire e ho accettato. Andremo a prendere un gelato domenica pomeriggio».
«Quindi Mike non ti piace più?».
«Dopo quello che ti ha fatto? No grazie» esclama Rachel con disprezzo.
Sorrido mentre Luce e Madison ridacchiano.
Dopo aver finito di mangiare usciamo dal ristorante e decidiamo di andare in un negozio vicino casa di Madison.
Ci passiamo tutto il pomeriggio e verso le 6 prendiamo un autubus per tornare a casa.
Luce mi accompagna fino al mio portone, ma prima che io possa entrare mi prende per il braccio e mi gira verso di lei.
«Non fidarti di Zack. Io non so che cosa ti è successo quando eri piccola e non lo voglio neanche sapere. Ma se lui c'entra qualcosa non ti devi fidare di lui. Lo hai già messo alla prova e hai visto cosa è accaduto».
Accenno un si con la testa per poi girarmi ed entrare nel mio cortile.

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