CAPITOLO 11

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Mi è sempre piaciuto stare da sola.
Le altre persone mi danno fastidio.
Non è che sono asociale è che non le sopporto proprio per niente.
Quando sono sola non voglio nemmeno pensare.
I miei pensieri e le mie azioni sono troppo correlati tra di loro.
Non so cosa sia peggio: ciò che penso o ciò che faccio.
Sono seduta sul prato da almeno un quarto d'ora, quando mi arriva un messaggio da mio padre: "Ciao tesoro. Volevo dirti che io e la mamma andremo a cena fuori".
Non gli rispondo.
Non mi va di rispondergli dopo quello che mi hanno detto.
Poggio il telefono sull'erba e alzo la testa.
Il cielo è grigio, probabilmente sta per piovere.
Sposto lo sguardo davanti a me e scorgo delle figure in lontananza.
Assottiglio gli occhi, cercando di vedere meglio il gruppetto di persone.
Qui non viene mai nessuno.
Mi avvicino di soppiatto e noto cinque ragazzi seduti in cerchio sull'erba, che chiacchierano tra loro.
Non riesco a vedere chi sono poiché hanno tutti il cappuccio sulla testa.
Uno di loro alza la testa e il cappuccio che aveva sulla testa gli cade.
Io lo vedo.
Lui mi vede.
Mi nascondo velocemente dietro un albero, trattenendo il fiato per la sorpresa.
Il ragazzo invece fa finta di niente e continua a discutere con i suoi amici.
Non può essere lui!
È morto anni fa!
Mi giro e inizio a correre.
Migliaia di pensieri mi risuonano in testa come mille campane.
Di chi mi posso fidare adesso, se non mi fido neanche della mia memoria?!
Esco dal parco dirigendomi verso casa, quando il telefono inizia a squillare.
Mi fermo e cerco di riprendere fiato.
Prendo il telefono e rispondo senza guardare chi mi sta chiamando.
«Ciao Eurus sono la mamma. Volevo dirti che ti faremo compagnia a cena se vuoi, ma non mangeremo con te.
Sei d'accordo?».
«Fate come volete».
Riattacco prima di sentire una risposta da parte sua e metto il telefono in tasca.
Che genitori che mi hanno trovato!
Riprendo a camminare dirigendomi verso casa.

Apro la porta di casa.
I miei genitori stanno parlando un cucina, probabilmente su quello che è successo, così vado nella mia camera e sbatto la porta.
Li sento sobbalzare, mentre mia madre si mette a gridare il mio nome, aspettandosi una risposta.
Non le rispondo.
Non voglio che sentendo la mia voce, entrino in camera mia e dicano che "dovevamo parlare".
Non li voglio tra i piedi.
Mi siedo alla scrivania e prendo la scatola delle foto che non ho ancora appeso al muro e che forse non appenderò mai.
Ne cerco una in particolare che trovo in fondo alla scatola.
La tiro fuori e la guardo.
Raffigura me che sorrido e accanto c'è... il mio migliore amico, Jack.
Io e lui ci conoscevamo dall'asilo e stavamo sempre insieme.
Era la seconda persona di cui mi potevo fidare. Lui e Malia erano le uniche persone che mi volevano bene veramente.
Non erano come la mia famiglia.
Non erano come i miei compagni di classe.
Erano speciali.
Ma un giorno mentre stavamo uscendo da scuola, una macchina si è diretta verso di me e lui mi si è parato davanti, dicendomi di scappare.
E io l'ho fatto.
Sono scappata nella direzione opposta mentre lui veniva investito.
Sono scappata come una codarda.
Quel giorno era il mio compleanno.
E lui ha sacrificato la sua vita per salvare la mia.
Mi ha regalato la sua vita quando sarei dovuta morire io al suo posto.
Pochi giorni dopo vennero a casa mia per arrestare mio padre per omicidio stradale, ma fu scagionato per mancanza di prove.
Io sapevo che era stato lui perché aveva sempre cercato di distruggermi la vita e non gliel'ho mai perdonata.
Il ragazzo che era al parco gli somigliava così tanto.
Forse era lui.
E se era lui che ci faceva lì?
Mentre mi faccio queste domande sento mio padre chiamarmi per la cena.
Levo la scatola dalle ginocchia e mi alzo dalla sedia, uscendo dalla stanza.
Mi dirigo verso la cucina e mi siedo al mio posto inziando a mangiare la mia minestra preferita.
I miei genitori mi guardano con compassione.
Odio quando mi guardano così.
Mi fa davvero arrabbiare.
«Sei sicura di voler andare al camposcuola? Non sembra che tu stia...».
«Sto benissimo. Ci andrò» dico interrompendo mia madre.
«Ma hai visto morire tre persone nell'arco di una settimana! Ne sei davvero sicura?» mi richiede mia madre.
«Sto bene. Non mi fanno impressione queste cose. Sapete cosa è successo ai miei...».
Mi interrompo poiché non so come chiamarli.
Non si meritano quel nome.
«Ti possiamo aiutare in qualche modo?».
«Non mi serve il vostro aiuto».
«Comportati bene, allora» mi dice mio padre, non capendo il motivo del mio comportamento.
«Va bene. E voi... divertitevi» gli rispondo, notando il cappotto che hanno addosso.
Finita la minestra mi alzo da tavola portando il piatto nel lavandino, dopodiché vado un camera.
Dopo un quarto d'ora sento la porta chiudersi, segno che sono appena usciti, così decido di finirmi di preparare la valigia.
Dopo aver finito la chiudo e accanto metto il mio zainetto da portare sul pullman.
Ripenso a quello che è successo negli ultimi giorni e a come la staranno prendendo le mie amiche.
Devo dare loro una spiegazione.
Prendo il telefono e mando un messaggio ad ognuna di loro, chiedendogli di venire a casa mia.
Accettano tutte l'invito così mi siedo sul divano per leggere un libro.
Dopo un po' di tempo sento suonare il campanello.
Mi alzo dal divano e vado ad aprire la porta.
È Luce.
Indossa una gonna corta a balze grigia, una maglietta attillata del medesimo colore, una giacchetta di pelle nera e un paio di stivaletti con un poco di tacco.
Ogni volta che la vedo sembra una bambolina.
Almeno lei si piace.
«Ciao Luce».
«Ciao Eurus. Io non posso rimanere molto perché... devo badare ai miei fratelli».
«Non sei brava a mentire. Lo sai che le bugie non mi piacciono» le rispondo, incrociando le braccia.
«Scusami. I miei genitori non devono sapere che sono qui. Pensano che tu...».
Smette di parlare e abbassa la testa, guardandosi i piedi.
«Qualsiasi cosa pensino loro mi basta che non la pensi tu» le dico sorridendo.
Cerca di sorridere ed entra in casa sedendosi poi sul divano.
Non mi dice niente.
Si limita a guardarmi mentre io continuo a leggere il mio libro.
Improvvisamente sento suonare alla porta così poggio nuovamente il libro sul divano e vado ad aprire.
Mi trovo davanti due ragazze.
Sono Rachel e Madison.
Rachel indossa una maglietta della Levis, una felpa grigia, dei jeans neri e delle scarpe da ginnastica; è appena tornata da danza e ha ancora la borsa con sé.
Anche Madison è appena tornata da danza.
Lei indossa un paio di jeans azzurro chiaro, una felpa corta grigia e un paio di scarpe da ginnastica.
Mi sposto di lato e le faccio entrare.
Mentre entriamo in salone Rachel si gira verso di me e mi punta il dito contro.
«Che sia ben chiaro! Io sono venuta solamente per non lasciare Luce e Madison da sole con te e anche perché devi darmi una spiegazione su Mike. Quindi sbrigati che ho da fare» mi dice scocciata.
«Non ti ho obbligata a venire. Se te ne vuoi andare puoi farlo».
Lei non mi risponde e si siede sul divano accanto a Luce e Madison.
Io mi risiedo sulla mia poltrona e restiamo in silenzio per qualche minuto.
Rachel continua a passarsi la mano tra i capelli, lanciandomi ogni tanto qualche sguardo torvo.
«Allora che cosa volevi dirci di tanto importante?» domanda Madison rompendo il silenzio.
«Il mio segreto...».
«Prima potresti spiegarmi perché hai baciato Mike?» mi interrompe Rachel sbuffando.
«Lo farò».
Sospiro. Proverò a dirgli la verità.

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