CAPITOLO 9

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Sono davanti alla porta dello studio della psicologa.
Non so se suonare alla porta o andarmene, poiché andare dagli psicologi non mi è mai servito e sono solo riusciti a peggiorare le cose.
Mentre ragiono sul da farsi, vedo la porta aprirsi ed una donna sorridente mi saluta.
«Tu devi essere Eurus. Piacere io sono Chantrel» mi dice porgendomi la mano e sfoggiando un enorme sorriso.
Ignoro la sua mano tesa ed entro nello studio.
Lei mi segue correndo ed appena entro nella stanza noto subito una telecamera posizionata dietro quella che dovrebbe essere la mia sedia.
«Quella telecamera serve per registrare le tue risposte alle domande che ti porrò. Le vedrò solo io non ti preoccupare» mi dice con voce rassicurante e mi fa cenno di sedermi.
Faccio un segno di assenso e mi siedo, guardandomi attorno.
«Vogliamo cominciare?» mi chiede con un sorriso.
«Va bene» le rispondo sistemandomi sulla sedia.
Nei 30 minuti successivi mi fa varie domande tra cui come è il rapporto con i miei genitori, con i compagni di scuola e con le mie amiche.
Esattamente ciò che mi hanno chiesto i poliziotti.
È sempre la stessa storia.
«Mi hanno detto che hai fatto un taglio sul braccio di un tuo compagno con un taglierino. Perché lo hai fatto?».
«Mi ha mentito» sbuffo alzando il ciuffo che mi ricade subito sul viso.
«E chi era il ragazzo che ti ha difeso? Il tuo fidanzato?».
«Non è il mio fidanzato! È solo un bugiardo! E io odio i bugiardi!».
Per cercare di calmarmi metto le mani sulla sedia, sotto le gambe.
«Ora lui non è qui. Stai tranquilla» mi dice mettendo le mani avanti tentando di calmarmi.
Alzo un sopracciglio e lo sguardo.
Crede che io sia una bambina?
Perché mi trattano tutti come un oggetto?
«Ti fidi di me se ti dico che non ti ho mentito,che non sono una bugiarda?» mi chiede speranzosa.
Corrugo la fronte confusa.
Cosa vuole che le dica? La verità?
Che non mi fido di lei? E sia.
Mi tiro su, sedendomi con più compostezza.
«No che non le credo. Anche lei è una bugiarda. Ne è un esempio il suo matrimonio: si è sposata da poco e già tradisce suo marito».
Spalanca gli occhi, sorpresa.
Ho fatto centro.
«Si domanda da cosa l'ho capito?!» continuo «Non ha neanche una foto di lei e suo marito insieme. Eppure vi siete sposati da poco. Inoltre ha il segno della fede sul dito, ma non la porta; questo significa che deve incontrare il suo amante dopo la mia seduta e lui non sa del suo matrimonio».
Mi fermo e faccio un sorrido beffardo. «E la sua espressione ha confermato la mia teoria. Questo la rende una bugiarda. Una grande bugiarda».
Smetto di parlare, cercando di trovare un nesso con il discorso appena fatto e la mia seduta.
Giro la testa verso la telecamera e mi viene un'idea.
Faccio il dito medio e sento qualcuno imprecare dall'altra stanza.
Non solo le registrano ma in questo momento sono in diretta.
Sono in collegamento con la persona nell'altra stanza.
Mi giro nuovamente verso la psicologa e incrocio le braccia al petto.
«E ha mentito anche a me. Mi ha detto che non c'era nessuno oltre a noi. C'è qualcuno nella stanza accanto che sta guardando la registrazione» le dico, indicando la porta.
Mi guarda pietrificata: non se lo aspettava.
Scuoto la testa da una parte all'altra ed aspetto un suo cenno.
«Credo che tu possa andare» mi dice tremando e mi fa cenno di uscire dalla stanza.
Sembra accorgersi solo adesso delle bende intorno alla testa, perché mi chiede se mi fa male.
Non le dico niente.
Non sono affari suoi.
Dovrebbe solo cambiare lavoro.
Esco dalla stanza, dirigendomi verso la porta di ingresso.
Sono arrabbiata.
Tanto arrabbiata.
Vorrei che sparisse.
Vorrei non averla mai incontrata.
Ho voglia di urlare.
Mi tappo la bocca con le mani e guardo a terra, continuando a camminare.
Sto per uscire ma qualcosa mi blocca. Sul pavimento ci sono delle gocce rosse.
Mi chino e le guardo meglio.
È sangue.
Si dirigono dalla stanza da cui ero uscita poco prima all'ingresso.
Ritorno sui miei passi ed entro nella stanza.
La psicologa è riversa sulla scrivania in una pozza di sangue: i suoi occhi sono vitrei e guardano il vuoto.
Sul pavimento c'è un uomo che non ho mai visto.
Corro nel corridoio e mi dirigo nella stanza in cui ci sarebbe dovuto essere l'uomo che guardava la registrazione.
Non lo trovo.
Vedo solo delle chiazze di sangue e uno degli ombrelli che si trovavano all'ingresso a terra.
È sporco di sangue sulla punta.
Ritorno nell'altra stanza e rivedo l'uomo, anche lui in una pozza di sangue e con un coltello nel ventre.
Mi avvicino alla finestra e vedo qualcuno fuggire dal portone del palazzo in cui mi trovo.
Vedo la figura allontanarsi di corsa per strada, con un cappuccio in testa.
Torno all'ingresso e mi siedo.
Mi passo due dita sulle tempie, cercando di assimilare ciò che è accaduto negli ultimi dieci minuti.
Ho un grande vuoto di memoria.
Non riesco a ricordare nulla.
Cerco di fare la cosa più giusta.
Prendo il telefono per chiamare la polizia, digitando il numero.
Mi risponde una donna e le racconto tutto.
Mi ascolta con il fiato sospeso, interrompendomi ogni tanto per delle delucidazioni.
«Non preoccuparti arriveremo tra pochi minuti» mi dice la donna tentando di rassicurarmi e riattacca.
Appoggio il telefono accanto a me e mi guardo le mani sporche di sangue.
Non avrei dovuto tentare di salvarli.
Tanto sono morti comunque.

Sono seduta su un'ambulanza e sento i miei genitori urlare contro dei poliziotti.
Non sto ascoltando quello che stanno dicendo, ma sembrano molto arrabbiati.
Guardo un punto indistinto davanti a me, cercando di capire cosa fosse successo nel giro di pochi minuti.
Chi è stato?
Chi era quella figura che fuggiva?
E perché non mi ricordo nulla?
«Non potete interrogarla dopo tutto quello che ha passato. In questi giorni ha dovuto sopportare di tutto e voi volete interrogarla? Non ve lo permettiamo!» dice mia madre, tentando di mantenere la calma.
Perché urlano?
«Signora abbiamo controllato la registrazione della telecamera che si trovava nella stanza. A quanto pare sua figlia ha avuto una reazione eccessiva alle parole della psicologa» dice uno di loro, guardandomi con circospezione.
«Quando sono stati uccisi entrambi la telecamera era spenta. Inoltre sua figlia, poco prima che arrivasse l'ambulanza, ci ha detto che ha visto una figura allontanarsi per strada. Dobbiamo identificarlo» le risponde l'altro.
«Mamma...» dico con un filo di voce.
Che cos'è questa brutta sensazione?
Lei si gira verso di me, guardandomi scovolta.
«Tesoro... dimmi tutto» mi risponde, spaventata.
«Che cosa... cosa ho sul viso?» le domando quasi con un sussurro.
«Del... sangue» mi dice il paramedico che si trova accanto a me, ma si sposta da me di scatto.
Butto la testa all'indietro e rido.
Sto ridendo. Io sto ridendo.
Sono state uccise due persone da quella figura che correva per strada e io sto ridendo.
Non riesco ad mettere.
E non so il perché.
I poliziotti mi guardano atterriti mentre i miei genitori si sono allontanati da me, spaventati.
Il paramedico mi cerca velocemente la vena del braccio, infilandoci dentro una siringa con del tranquillante.
Crollo sul marciapiede.
Mi risveglio in un letto d'ospedale con intorno dei dottori che mi controllano, parlando tra di loro.
«Ti senti bene? Sai dove ti trovi?» mi chiede uno di loro.
«Mi sento... bene. Perché sono in ospedale se sto bene?» chiedo alzando la testa dal cuscino.
«Non sembra che si ricordi di ciò che è successo. Possiamo dimetterla» dice a bassa voce colui che mi aveva fatto la domanda, ai miei genitori.
Invece ricordo.
Ricordo tutto ciò che è successo.
Dopo l'incidente.
Mi portano i miei vestiti e mi fasciano la testa, non ancora guarita.
Mentre mi vesto vado verso il bagno e mi specchio: nel riflesso vedo solo sangue.
Ho il viso rosso di sangue.
Il taglio che ho sulla guancia si è riaperto per lo sforzo e non me l'hanno medicato.
Che medici sono?
Mi sciacquo la faccia cercando di non sporcare il pavimento e il lavandino.
Cerco dell'acqua ossigenata e la butto sul taglio aperto.
Trovo un cerotto in un armadietto e lo poggio sopra.
Esco dalla stanza, dirigendomi verso i miei genitori che mi guardano con un po' di paura.
Li sorpasso e vado verso la macchina, ignorandoli.
Salgo dentro aspettando che salgano anche loro.
Mentre mi sistemo sul sedile vedo due medici entrare in una macchina dietro di me.
Finalmente vedo arrivare mio padre che si siede al posto di guida; mia madre si mette vicino a me.
Notando che osservo i due medici mia madre mi dice che sono del reparto di psichiatria.
«Verranno a casa due medici per vedere come ti comporti. Non ti preoccupare non succederà nulla» mi dice mia madre mentre mi accarezza la mano.
Dopo queste parole mio padre mette in moto la macchina e si dirige verso casa, con i due medici alle nostre spalle.

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