Gli zoccoli di un cavallo picchiavano sul terreno arido e polveroso senza sosta, alzando nubi di terriccio e graffiando quella terra secca senza alcun riguardo. Il sole era da poco sorto sul cielo asgardiano, illuminando per la prima volta il decimo giorno che gli Zekos trascorrevano in uno dei Nove Regni, e la volta celeste ancora sui toni dell'arancione gettava una tenue luce brillante sul cavallo e il suo fantino, facendone brillare gli occhi di un colore che appariva scuro e terribile come la notte più buia. Quella distesa desertica priva di ogni cosa e abbandonata da anni dagli abitanti di quelle terre veniva ora solcata dagli zoccoli di un solo animale, attraversata da una creatura vivente dopo tempo indeterminato, quasi risvegliandola dal lungo sonno in cui quel luogo era precipitato. Il cavaliere rimaneva piegato sul collo della bestia e stringeva le redini tra le mani tanto forte da aver tramutato le proprie nocche in pallide lune piene, tentando con sempre maggior fatica di non farsi disarcionare dall'attrito che il vento pareva creare contro di lui, come una barriera che tentava di spingerlo giù dalla sella per la troppa velocità del suo animale. Aveva abbandonato le luci di Asgard dietro di sé da quelli che gli parevano decadi e dentro di sé cominciava a coltivare l'irrazionale speranza che quando sarebbe tornato indietro – se fosse davvero tornato – avrebbe trovato il suo mondo avanti di millenni, le sue conoscenze ormai anziane e il proprio nome dimenticato.
Aveva voltato le spalle al Bifrost e si era allontanato dalla musica e dai canti proveniente dall'accampamento, spingendosi così lontano da diventare un minuscolo punto estraneo persino per la vista incantata del guardiano del Ponte Arcobaleno.
E nonostante ciò, nonostante paresse essere andato talmente lontano da essersi lasciato la vita alle spalle, da essere passato a quello che gli uomini chiamavano Inferno, da aver raggiunto i confini dell'esistenza, ancora non si fermava. E se davvero l'avesse potuto, se il suo cavallo fosse stato instancabile e il terreno da percorrere infinito, probabilmente non si sarebbe mai fermato e quegli zoccoli avrebbero continuato a conoscere terreno nuovo, correndo su distese sempre uguali ma continuamente diverse, finché non si fossero consumati i loro esseri e loro non si fossero trasformati nel lucido spettro di due creature viventi.
Quando finalmente il cavallo arrestò la sua corsa, al fantino sembrò di non essere andato abbastanza lontano, di non essere stato in grado di superare la soglia dei suoi pensieri, di non essere andato sufficientemente veloce da poter perdere il proprio cuore nel vento, lasciando che i sentimenti in esso contenuti si sparpagliassero per quella landa silenziosa.
Nonostante ciò, con un gesto agile e veloce, il cavaliere scese dalla groppa dell'animale, lasciando che il proprio destriero piegasse le zampe sul terreno desertico e si riprendesse da quella fatica immensa. Una folata di vento incredibilmente gelido per la stagione scosse gli abiti del cavaliere, facendo cadere all'indietro il largo cappuccio scuro che indossava mentre esso si piegava per liberare il ventre della bestia stanca dalla stretta sella. Il cuoio scuro atterrò con un tonfo sordo tra la polvere, alzando un sottile strato di polvere e facendo scuotere la testa al cavallo. Il fantino estrasse da sotto il mantello una grossa borraccia e ne versò il contenuto nel largo tappo circolare, offrendo la fresca acqua all'affaticato animale, che non si fece molti scurpoli ad accettare, dissetandosi lentamente. La borraccia scomparve nuovamente sotto gli abiti del cavaliere ed esso andò a sedersi affianco al corpo della bestia, riparandosi da quei continui soffi gelidi con il calore del grande corpo del cavallo. Incrociò le gambe affianco al morbido manto scuro del destriero e cominciò a far scorrere la mano sinistra sulla sua schiena, sentendo dapprima il ruvido strato di criniera, simile alle setole di una dura spazzola, che poi si tramutava nel morbido pelo corto dell'animale, liscio e lucente. Il cavallo piegò l'enorme testa di lato, invitando il suo fantino a continuare.
“Sei molto forte.” sussurrò il cavaliere, la voce roca di chi non parla da molto e il tono profondo di chi ha pensieri più oscuri per la mente. “Sei arrivato dove nessun altro cavallo potrebbe giungere.”
Come se fosse davvero riuscito a capirlo, la bestia colpì dolcemente col muso il suo cavaliere, che abbozzò un debole sorriso e sfregò un paio di volte il palmo aperto sul muso dell'animale. Poi si rannicchiò al suo fianco, incrociando le braccia sul dorso del cavallo e appoggiandoci sopra il mento, mentre piegava le ginocchia e stendeva le gambe in obliquo affianco al corpo.
“Ho sempre trovato affascinante l'alba. Sembra una nuova vita che sorge.” mormorò con lo sguardo puntato sul cerchio rosso fuoco di sole che, ancora piccolo all'orizzonte e più scuro del solito, riusciva ad essere guardato per pochi istante senza bruciarsi le retine. Quando sentì gli occhi cominciare a lacrimare e bruciare, distolse lo sguardo, tornando ad accarezzare il manto dell'animale con le dita tremanti. Sentì gli occhi farsi più umidi e bruciare più di prima, mentre una gelida goccia scendeva lunga la sua guancia. Le spalle gli tremarono e prima che potesse impedirlo un pianto trattenuto si riversò fuori dal suo cuore, riempiendo per la prima volta il silenzio di quella landa. Un paio di singhiozzi lasciarono le labbra del cavaliere mentre piegava la fronte sul proprio braccio, nascondendo il volto nel corto manto del cavallo. Le spalle gli tremarono più forte e la schiena venne attraversato dal basso verso l'alto da un intenso briviso. Il cavaliere alzò di scatto il volto al cielo e urlò, un grido terribile e spaventoso, traboccante d'ira e paura, un suono agghiacciante e spaventoso, che avrebbe fatto tremare le membra a chiunque l'avesse udito e scappare gli uccelli dai loro rami.
Ma lì non c'era nessuno.
Nessun essere vivente avrebbe potuto spaventarsi e nessun abitante avrebbe potuto rabbrividire all'udire di quell'urlo. C'erano solo lui e il suo destriero, che si limitò a sbuffare dalle narici, piegando in avanti il grosso capo, come se anche lui condividesse l'angoscia del suo cavaliere.
Quest'ultimo trasse un lungo e lento respiro, pur non riuscendo a fermare le lacrime.
Il quel momento, sfogata quella forte ira improvvisa, provò solo paura. Un terrore che aveva sempre vissuto in lui, ma che non si era mai palesato a sufficienza per farne sospettare l'esistenza. E ora qualcosa l'aveva condotto in superficie, ad annunciarsi in tutta la sua spaventosa presenza, avvinghiandosi ai polmoni del cavaliere e impedendogli di respirare, rivoltando con furia le sue viscere e stringendo tra le proprie spire il cuore pulsante del fantino, come un boa con la sua preda. Il cavaliere si chiedeva ora se quella serpe tanto grande e forte che era cresciuta dentro di sé avrebbe inghiottito il suo cuore tutto intero, lasciandolo nel proprio stomaco a disgregarsi lentamente, mentre lui si acquattava nel suo petto, invinghiato nelle costole, addormentandosi dove un tempo forti sentimenti erano stati strappati via di prepotenza da quel luogo. Il cavaliere si domandò se non fossero state proprio le fauci di quell'essere a fargli sanguinare il cuore, privato di forti sensazione e profonde emozioni, ogni qualvolta lui avesse deciso di provare a contrastarlo, ammucchiando una buona dose di gioia e speranza che tenessero a bada la serpe, impedendogli di svegliarsi finché non fosse stato più inevitabie.
Ma sospettava che ora quel momento fosse giunto.
Nuovi singhiozzi scossero le sue spalle e argentei torrenti ghiacciati si cristallizzarono sul volto del cavaliere, che i timidi raggi del sole mattutino mostravano pallido e smunto, privo di ogni colore ed incredibilmente vecchio, come se millenni fossero passati su quegli zigomi e avessero solcato quelle guance. Un coraggioso ciuffo di neri capelli si avventurò lontano dalla posizione che gli era stata imposta, ricadendo sulla fronte del cavaliere in attesa di essere rimesso al proprio posto, ma scoprendo che questa non era più una priorità e che, finché quel terrore avesse tenuto in trappola lo stato d'animo del cavaliere, quella ciocca più scura della notte sarebbe rimasta lì.
Al cavaliere ritornò in mente, scioccamente, un'antica favola Midgardiana che non riusciva a ricordare per intero e che non sapeva quando avesse ascoltato; solo un dettaglio di quella favoletta gli arse luminoso e splendente tra i ricordi.
Bianca come la neve, scura come l'ebano e rossa come il sangue.
Si chiese se in quel momento non fosse anche lui così: pallido e freddo come la neve più gelida, con uno spesso strato di ghiaccio appuntito che si diramava nei polmoni e una distesa di candida neve al posto della pelle; nero e oscuro come l'ebano, con pensieri fitti d'oscurità che prendevano forma in lunghe ciocche lisce, come se tutti quei macabri presentimenti e quelle dolorose rivelazioni cercassero di fuggire a quella dannazione eterna, uscendogli direttamente da cranio e gettandosi a capofitto verso il vuoto oltre la sua nuca, sperando di raggiungere il terreno e strisciare via ma rimanendo ancorati ai ricordi che li avevano generati; e scarlatto come il sangue scuro degli animali, che si spargeva in due grosse macchie di rosso sfumato, pallido e spaventato, allargato sotto i suoi occhi chiusi e le palpebre tremanti, come se avesse pianto sangue ed esso si fosse poi annacquato con altre lacrime, divenendo di un rosa tenue tendente al rosso, che ormai era sparito lasciando grosse chiazze sul volto spettrale del cavaliere.
Doveva ammettere che si sentiva davvero così.
Bianca come la neve, scura come l'ebano e rossa come il sangue.
Altre lacrime taglienti ed appuntite scesero dai suoi occhi stanchi, venendo subito spazzate via dall'intenso vento altrettanto acuminato, che graffiò con le sue unghie rapaci il viso debole e dall'aria quasi malata del cavaliere. Se lo si fosse guardato in quel momento, si avrebbe scommesso che si trovava ormai in fin di vita e che lo sapesse benissimo, che si fosse trascinato fino a quel punto lontano dal mondo in quella corsa folle solo per potersi lasciare morire distante dagli occhi di colore che aveva amato e che avrebbe amato ancora fino al suo ultimo respiro.
Se lo si guardava abbastanza, si cominciava a credere che fosse già divenuto trasparente, come il debole riflesso di un fantasma dannato per l'eternità.
Il cavaliere nascose il volto nelle braccia incrociate, sopra la schiena del cavallo, lasciandosi abbandonare al dolore e alla paura che lo stavano divorando. Altre lacrime bagnarono le sue guance e scivolarono sulle sue braccia, mentre i singhiozzi venivano placati con morbosi morsi alle labbra, che ben presto fecero spillare piccole goccioline rotonde di sangue, che andò a mischiarsi con le lacrime sui suoi avambracci e sul manto dell'animale sottostante.
Bianca come la neve, nera come l'ebano e rossa come il sangue.
Sosia odiava essere debole.Jotunheim
so che in questo capitolo ci sono un po' di ripetizioni (più che altro della parola "cavaliere", ma penso capiate il motivo e spero non me me facciate una colpa. per quanto mi piacciano i sinonimi, non ne ho pensati abbastanza e forse l'effetto è un po' ridondante, sorry.
in ogni caso, concentratevi sulla depressione di questo capitolo, più che sulle parole, così se devo prendere degli insulti, saranno perché faccio deprimere i personaggi :))
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||𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓 𝐏𝐄𝐎𝐏𝐋𝐄|| 𝘓𝘖𝘒𝘐
Fanfic《"Asgard..." chiamò in un sussurro, simile al soffio di vento che muove le fronde dei pini centenari nei boschi più grandi. "Non mi ha mai deluso."》 →|AU (non tiene conto degli eventi di "Thor")