14 • Make me forget what we arguin' about (Pt.1)

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Gli sembrava che il tassista spingesse l'auto alla stessa velocità di una lumaca.

«Può sbrigarsi per favore?» sbottò con un moto di stizza.

«Urlare non farà muovere il traffico» replicò l'uomo, infastidito. Poi si sistemò il cappello, mettendo dritta la visiera. «Non la vede la coda? Ho un taxi, non un bulldozer.»

«Avrei fatto meglio ad affittare quello, allora...!»

Levi incrociò le braccia, le gambe che si muovevano ritmicamente per via dell'impazienza e dell'ansia che gli stavano attanagliando le viscere.

Ogni minuto, ogni metro era uno in meno a separarlo da Eren.

La voglia di stringerlo e la paura di farlo lo rendevano un fascio di nervi.

Per il vocalist era strano essere lì. L'ambiente lo confondeva.

Nonostante non fosse una persona narcisista o vanitosa, Levi si era abituato alle cure e attenzioni straordinarie che venivano dedicate ad L. Lì invece, a Shiganshina, nessuno poteva riconoscerlo ed essere trattato come una persona qualsiasi era un'esperienza quasi nuova.

«Sai amico è stata una lunga giornata anche per me» replicò il tassista, guardandolo dallo specchietto retrovisore. «Hai due cose, proprio lí, attaccate alla fine delle gambe e si chiamano piedi. Che ne dici di usarli?»

Avesse saputo dove accidenti si trovasse, gli avrebbe lanciato una banconota da cento giusto per lo sfizio di non sentirlo più blaterare ed avrebbe percorso il resto del tragitto come gli aveva appena suggerito. Nessuno osava trattarlo in quel modo, mai.

Quando si guardò intorno, però, il paesaggio poco familiare lo convinse a mordersi la lingua se non voleva rischiare di perdersi e ritardare ancora il momento in cui avrebbe rivisto il moccioso.

«Pensa a fare il tuo lavoro, amico

Trascorsero almeno un'altra mezz'ora imbottigliati in un ingorgo, imboccando poi una strada che li portò in un quartiere periferico, tranquillo e silenzioso.

Era lì che Eren era nato, dove era cresciuto ed aveva vissuto.

Sembrava il set di qualche comica serie TV famigliare: casette a schiena, piccoli giardini, garage aperti, fermate dell'autobus, bambini che venivano chiamati in casa dai genitori ora che il sole stava tramontando.

Il tassista si fermò nel mezzo di una strada e lo fece scendere davanti ad un piccolo viottolo di piastrelle, accanto ad una cassetta della posta con "Jaeger" scritto a mano. Appoggiata al muro, legata con una catena, c'era una moto coperta da un telo. Sembrava che nessuno la usasse da parecchio tempo. Le luci erano accese.

La famiglia era in casa.

Levi non accennava a voler scendere.

«Che c'è, non hai più fretta?»

Gli arrivò un rotolino verde di banconote dritto in faccia, e il tassista si massaggiò il naso offeso.

«Tieni pure il resto.»

Il corvino posò le suole delle scarpe sul selciato del villino dal tetto rosso, facendo un respiro profondo. Un passo dopo l'altro, si trovò dinanzi all'uscio di casa Jaeger, il dito sul campanello ed il cuore che batteva come impazzito.

Quasi subito sentì, dall'altra parte della porta, i suoni della casa che si fermavano. Una voce femminile disse qualcosa, passi veloci fino alla soglia.

La serratura scattò e Levi si sentì gelare alla vista di un viso dalle dolci forme curve, labbra rosee e morbide, pelle scura e grandi occhi nocciola.

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