𝑢𝑛𝑑𝑖𝑐𝑖 ( 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎 )

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Nella sua mente


Ora immagina questo.

C'è un ragazzino sui quindici anni, alto e magrolino, che osserva con soggezione il cancello in ferro battuto che ha davanti. Negli occhi ha quella paura che caratterizza tutti gli adolescenti, tra le mani una borsa con i suoi pochi effetti personali.

"Andrà tutto bene," dice una delle due figure più alte che lo accompagnano, in piedi davanti a lui. Suo padre... I suoi genitori. Lo stanno abbandonando là per i prossimi mesi, forse anni, eppure non prova emozioni negative verso di loro. Solo indifferenza, apatia totale: ed è questo il motivo principale per cui si trova lì, la sua insensibilità, la sua passività verso ogni cosa, seguita da improvvisi scatti d'ira e violenza che lo hanno da sempre reso ingestibile.

Il ragazzino alza lo sguardo, affascinato dal cancello che inizia ad aprirsi. I tre percorrono il sentiero fino a raggiungere l'ingresso dell'enorme edificio grigio. C'è un uomo vestito di bianco ad aspettarli davanti alla porta.

L'uomo bianco gli sorride rassicurante; proprio sopra alle loro teste c'è una grossa insegna arrugginita, in un corsivo quasi incomprensibile recita St. Mary Memorial, e sotto, in lettere maiuscole ma più piccole: clinica psichiatrica.

Il corridoio che percorrono per raggiungere lo studio del dottore - l'uomo bianco, completamente bianco, dai capelli agli abiti - è come un tunnel e una volta raggiunta la meta resta per qualche minuto smarrito, disorientato. Si guarda intorno con gli occhi semichiusi, fin quando nella stanza inizia a sentire una canzone, una melodia malinconica ma dolce, sassofono... Percepisce il testo, anch'esso triste e nostalgico.

Days are cloudy, nights are cloudy, since you went away...

Sente una mano strattonarlo con delicatezza, e come risucchiato da un vortice torna subito alla realtà. Lo studio è piccolo ma ben tenuto, c'è odore di libri vecchi. È sua madre che, con una mano guantata sulla sua spalla, lo sta invitando a sedersi. Il ragazzo si accorge che la musica proviene da un vecchio grammofono all'angolo della stanza, appoggiato su un mobile nero coperto da un centrino bianco e polveroso.

Quando si volta verso il dottore, si accorge dell'imponente scrivania a dividerli. Suo padre e il dottore stanno discutendo, e solo allora inizia a seguire la conversazione.

"Per i casi come quelli di suo figlio, in genere si utilizza la terapia elettroconvulsiva..."

"L'elettroshock?" s'intromette la madre, portandosi una mano al petto.

"Usi il termine corretto, la prego," si acciglia il dottore, "Così ci fa sembrare dei barbari."

"E per quanto dovrebbe essere sottoposto a questa... terapia?" domanda di nuovo il padre.

"In genere il trattamento inizia mostrare i suoi frutti dopo non meno di sei mesi. Noi utilizziamo il trattamento due o tre volte a settimana."

La madre emette un sospiro strozzato, di puro dolore, che per un attimo sembra quasi interrompere la musica di sottofondo; si avventa sul ragazzino, abbracciandolo e stringendolo a sé, e il medico continua a discutere col padre:

"E non... non ci sono altri trattamenti alternativi?" domanda l'uomo, lanciando un'occhiata preoccupata a ciò che resta della sua famiglia.

Il dottore prende la cartella clinica del ragazzo, la sfoglia pigramente.

"L'unica alternativa è la procedura Freeman-Watts," replica, il tono di voce improvvisamente più basso, "Una lobotomia prefrontale."

Il padre scuote la testa, sconsolato, mentre il dottore comincia a elogiare i benefici di quel celebre trattamento psichiatrico, l'unico al momento che secondo gli studi non causa ricadute, e ad un tratto l'interrompe, sbattendo la mano sul tavolo.

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