I Romanov

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Come vi avevo detto nel precedente capitolo, ecco qua gli ultimi giorni dei Romanov.

Ho pubblicato anche il sequel di questa storia. Si chiama "Insieme per sempre".



La Rivoluzione russa scoppiò nel febbraio 1917. Un mese più tardi Nicola II, imperatore e autocrate di tutte le Russie, abdicò al trono, diventando semplicemente Nicola Romanov. 
Nicola credeva fermamente nel suo diritto divino di regnare, convinzione condivisa dalla moglie Alessandra.  E quando nel 1914 scoppiò la Prima guerra mondiale, Nicola guidò il suo popolo in un conflitto che avrebbe esaurito le risorse della nazione e sarebbe costato milioni di vite. Ciononostante l’ultimo zar rimase cieco di fronte alla propria crescente impopolarità, convinto che il popolo lo amasse ugualmente. I suoi sudditi, però, avevano opinioni diverse. La propaganda bolscevica l’aveva soprannominato “Nicola il Sanguinario”.

Per i bolscevichi i Romanov divennero pedine di scambio e insieme un grande grattacapo. La Russia doveva negoziare la propria uscita dalla Prima guerra mondiale ed evitare nel contempo un’invasione straniera. I nemici della nazione avrebbero tenuto gli occhi puntati su di loro, per vedere che cosa ne sarebbe stato degli ex governanti; ma, rimanendo in vita, i Romanov avrebbero rappresentato un simbolo per il movimento monarchico. Alcuni volevano che fossero mandati in esilio, altri che subissero un processo per quelli che la popolazione percepiva come crimini, e altri ancora che scomparissero per sempre.

All’inizio la famiglia fu mandata nel palazzo di Carskoe Selo. Per problemi di sicurezza, fu poi trasferita a Tobol’sk, a est dei monti Urali. Lì i Romanov non venivano trattati male. Nicola sembrava quasi rinato: si godeva la vita rurale e non sentiva certo la mancanza dello stress che essere zar gli procurava. Non capivano che, a poco a poco, tutte le vie di fuga si stavano chiudendo. Fino a che rimase solo la strada per Ekaterinburg. Quest’ultima era la città più radicalizzata della Russia, fortemente comunista e anti-zarista. «Andrei ovunque, tranne che negli Urali» si dice abbia affermato Nicola mentre il treno si avvicinava alla sua destinazione finale. Lì la famiglia alloggiava in un grosso edificio conosciuto come Casa Ipat’ev dal nome dell’ex proprietario. Un’alta palizzata in legno era stata innalzata per tagliare fuori il mondo esterno, e i confinati avevano l’uso di un giardino per fare esercizio. L’uomo al comando, Avdeev, era corrotto (la sua gente derubava liberamente i Romanov), ma non crudele. Le guardie erano persone comuni, reclutate dalle fabbriche dei dintorni, che con il passare del tempo entrarono in confidenza e fecero persino amicizia con i prigionieri. Non poteva durare. I bolscevichi rimpiazzarono Avdeev con Jakov Jurovskij, l’uomo che avrebbe orchestrato lo sterminio. Jurovskij reclutò guardie più severe e disciplinate. Mantenne un rapporto distante ma professionale con Nicola e Alessandra, persino mentre ne pianificava la morte.

Gli ultimi civili a vedere i Romanov vivi furono quattro donne portate dalla città per pulire Casa Ipat’ev. Marija Starodumova, Evdokija Semenova, Varvara Driagina e una non identificata quarta domestica diedero alla famiglia un briciolo di respiro dalla noia del confino e un ultimo contatto con il mondo esterno.
La testimonianza di queste donne ci ha fornito un ritratto più umano della famiglia ormai condannata. Nonostante il divieto di parlare ai Romanov, le domestiche ebbero ugualmente l’opportunità di osservarli da vicino. All’inizio furono colpite dal contrasto tra i racconti sull’arroganza della famiglia, diffusi dalla propaganda anti-zarista, e le persone modeste che si trovarono davanti. Una delle scene che sia Semenova sia Starodumova ricordarono con grande chiarezza fu quando Jurovskij si sedette accanto allo zarevič (figlio dello zar), informandosi sulla sua salute. Una scena resa sinistra, in retrospettiva, dal fatto che Jurovskij era perfettamente consapevole che a breve sarebbe stato il carnefice del bambino.

I Romanov dovevano essere uccisi perché erano il simbolo supremo dell’autocrazia. La notte del 16 luglio fu inviato a Mosca un telegramma che informava Lenin della decisione di trucidare i prigionieri. All’una e trenta del mattino Jurovskij informò i Romanov che il conflitto tra le armate rossa e bianca stava minacciando la città e che, per la loro stessa sicurezza, dovevano essere trasferiti nel seminterrato.
Non ci sono prove che i Romanov non abbiano reagito con docilità. Portando in braccio lo zarevič, Nicola guidò in cantina la propria famiglia e i quattro servitori rimasti con loro: il medico di famiglia Evgenij Botkin, la cameriera Anna Demidova, il cuoco Ivan Kharitonov e il domestico Aleksej Trupp. Riuniti tutti insieme in quel luogo angusto e spoglio, apparivano ancora ignari del proprio destino. Furono portate tre sedie per Alessandra, Nicola e Aleksej, mentre gli altri rimasero in piedi. Jurovskij si avvicinò, con i carnefici dietro di lui sulla soglia, e lesse ai prigionieri attoniti una dichiarazione preparata: «Il praesidium del soviet regionale, adempiendo al volere della rivoluzione, ha decretato che l’ex zar Nicola Romanov, colpevole di innumerevoli sanguinosi crimini contro il popolo, debba essere fucilato».

L'ultimo Styles (larry stylinson)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora