Capitolo terzo

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La mia vita era costellata dai cambiamenti.

Da che ne avevo memoria, la stabilità non era mai stata una costante nella mia esistenza. Mamma e papà andavano e venivano in continuazione per lavoro, io cambiavo hobby ogni settimana e da quando vivevo con Mary ci trasferivano come minimo una volta l'anno.

C'era un'unica cosa che non era mai cambiata e non l'avrebbe mai fatto: il mio ritardo cronico.

Corsi giù per le scale, con una scarpa slacciata e l'altra in mano, i capelli in faccia e già esausta di prima mattina.

Saltellando qua e là mi infilai in bocca una brioches dopo aver schioccato un bacio sulla guancia di Mary, intenta a leggere il giornale tranquillamente e ancora in vestaglia.

Che invidia.

«Scarlett.»

Mi bloccai, quasi alla porta, sorpresa dalla freddezza con cui mi aveva richiamata.
Lentamente tornai sui miei passi, cercando di capire cosa avessi combinato quella volta.

Mary era una donna fantastica e mi lasciava i miei spazi, ma non per questo sorvolava su tutto. Soprattutto quando mi chiamava con il nome completo, allora erano guai grossi.

L'ultima volta, a Dallas, avevo rotto i vetri della finestra di camera mia con un pallone. Ops.

«... si?» tentennai, sfoggiando a priori i miei occhioni da cucciolo: non si poteva mai sapere.

Mary, seria come mai l'avevo vista, mi inchiodò al pavimento con le sue iridi nocciola, impassibile «Ricordati cosa ti ho detto.» mi ammonì «Profilo basso, per favore.»

Il rumore prodotto dai suoi anelli, che sbattevano ritmicamente sulla tazza che stringeva, era l'unico suono percepito in tutta la casa. Persino Brandy sembrava allerta.

Ingoiai un groppo amaro.

Negli ultimi tempi avevamo dovuto cambiare città praticamente ogni 6 mesi o poco più, facendomi così perdere due anni di studi: per questo a 19 anni ero ancora imprigionata alle superiori.

Non importava cosa facessimo, loro continuavano ad avvicinarsi e Mary ancora non riusciva a trovare un posto sicuro. Speravo solo di non dover fare i bagagli troppo presto anche a quel giro.

Da cinque anni mi nutrivo di rancore e rabbia, che crescevano dentro di me ad ogni incubo che mi svegliava la notte. Gli spari, il sangue, papà che sbarrava la porta e mamma che mi portava nel seminterrato, per scappare dalla botola sul retro.

Mi ricordo come se fosse ieri il suono sordo che emise la serratura, quando mamma la chiuse dopo avermi spinta fuori. Ero rimasta di sasso, ad occhi sgranati, finché la sua voce ovattata non mi aveva urlato di correre, correre lontano.

L'ultima immagine che avevo di lei era mentre la trascinavano via per le caviglie, come se fosse un sacco e non una donna, una moglie, mia madre.

«Scar?»

Tornai al presente con un piccolo sussulto, sbattei le palpebre e rimisi a fuoco la testa inclinata di Mary, che ora mi fissava preoccupata sopra gli occhiali da lettura.

Tirai un sorriso, rifugiandomi nella pace che sempre mi aveva infuso il suo sguardo caloroso. Vista da fuori, con quei suoi tratti decisi e appuntiti, poteva sembrare persino cattiva, ma bastavano due secondi e ti accorgevi di come trattasse tutti con una dose smodata di dolcezza.

Le dovevo tutto, senza di lei sarei finita in un'orribile casa famiglia.

Mi schiarii la gola «Certo, non preoccuparti. Profilo basso, ricevuto forte e chiaro.»

Corri lontano da me Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora