Capitolo trentuno

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Ero abituata ai sorrisi impertinenti, alle battute sconce, al fare disinvolto e agli ammiccamenti scherzosi.
Ero abituata a vederlo come un amico fedele e sempre contento, ma davanti a me non c'era più traccia del Brandon/Golden Retriever.

In quel momento somigliava più ad un dingo selvatico con la bava alla bocca.

«Cazzo!» sbraitò, mettendosi le mani nei capelli mentre gli occhi gli schizzavano fuori dalle orbite «Per l'amor- Scarlett! Ma che cosa avete nel cervello voi due?!»

Sentii le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi; tutto il mio futuro mi crollava pezzo dopo pezzo davanti, mentre i miei adorati calcoli andavano in fumo, completamente inutili.

Oh Annie, credo proprio che una delle tue amate palle curve lanciate dal destino mi abbia appena centrata in pieno stomaco.

No.

Debolmente, tentai di respingere ancora quella consapevolezza, la ignorai come una bambina che se copre gli occhi, anche se la sua presenza era ingombrante tanto quanto un elefante in una cristalleria.

Il ramoscello con cui tentavo di smuoverlo si ruppe.

Perché a me? Non bastava già tutto il resto?
Uno sbaglio, un secondo di distrazione, un minuscolo attimo in confronto all'infinito arco temporale, e la mia vita si era capovolta su se stessa.

Io non ero all'altezza, che futuro avrei potuto dare ad una creatura così innocente e fragile? Che razza di madre sarei stata?

Ero a malapena una donna, una ragazzina troppo cresciuta, e già ne avevo passare di cotte e di crude; ero irrimediabilmente spezzata, tagliente e spigolosa, armata.
Come avrei potuto avere a che fare con qualcosa di così delicato, senza rischiare di danneggiarlo permanentemente?

Oh, e poi Josh.
Non l'avrebbe mai accettato, non era nei suoi piani, non era nei nostri piani.
Non avevamo parlato di nessun futuro, la nostra era una vita da cogliere attimo dopo attimo, e per il momento il nostro unico obbiettivo era tirarlo fuori da quel brutto giro.

Ma un figlio? No, un figlio non me l'avrebbe mai perdonato; era imprudente, stupido... e, con grande amarezza, mi accorsi che lo stavo considerando come un punto debole.

Chiunque avrebbe potuto prenderlo di mira per arrivare al lavoro dei miei genitori, o per usarlo come semplice vendetta.

Innocente, eppure nell'occhio del ciclone, seppellito da colpe non sue.

Sbattei le palpebre, e le lacrime ruppero gli argini; mi inondarono le guance, mi scesero in bocca con il loro sapore amaro e salato, mi scivolarono sul mento e proseguirono a rigarmi il collo.

Il mondo era silenzioso, in confronto all'uragano che mi ruggiva nel petto.
Gridava e ululava, strappava e riduceva a brandelli quella calma precaria che avevo costruito con pazienza negli ultimi tempi.

In uno schiocco di dita, ero di nuovo la quattordicenne che correva nel bosco con una pallottola nel fianco.
La differenza stava nel fatto che quella volta non potevo scappare, perché nulla mi inseguiva, ma ero io stessa a portarmi dentro la mia fonte di terrore.

A malapena mi accorsi delle mani di Bran, salde sulle mi spalle, finché con uno strattone non mi tirò a sé.

Rigida come un palo, non mi azzardai ad appoggiarmi a lui e a lasciarmi andare in quell'abbraccio, altrimenti sarei crollata.

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