Capitolo quindici

962 30 1
                                    

Si dice che gli angeli caduti abbiano vagato sulla la terra per un tempo indefinito dopo lo schianto, prima di ricordarsi chi fossero.
Decenni e decenni prima di riscoprire la loro identità; viaggiavano senza meta, senza riconoscere se stessi o gli altri.

Spaesati, impauriti, con le ali spezzate e l'animo in frantumi.

E negli ultimi dieci giorni, non avevo potuto fare altro che sentirmi in quel modo: dopo lo schianto il mio corpo si muoveva da solo, per abitudine, ma io ero spenta.

Mangiavo quel che riuscivo, dormivo tra un incubo e l'altro, andavo a scuola evitando Annie in tutti i modi.
Ero consapevole che non fosse colpa sua e che stessi infrangendo la promessa che le avevo fatto, ma guardarla negli occhi mi faceva un male cane.

Abbassai le palpebre, aprendo braccia e gambe a stella marina, sdraiata sul pavimento al centro della mia stanza.

«E come fai a sapere quelle cose, Josh?»

Silenzio.

Gli afferrai il braccio «Rispondimi!»

Ma lui lo strattonò via dalla mia presa e si alzò in piedi, mi diede le spalle «Le so e basta, Scarlett. Non ti deve interessare il come, quello che ti ho detto è già tanto, anzi troppo.»

Sgranai gli occhi, infuriata. Mi aveva detto troppo? L'unica cosa che aveva fatto era stata lasciarmi con ancora più domande.

Saltai dalla panchina e mi piazzai davanti a lui, fronteggiandolo «Mi hai detto troppo?» ringhiai «Non hai fatto altro che riempirmi di ulteriori dubbi, stronzo!»

«Insultami quanto vuoi, ragazzina, la realtà non cambia.» sibilò, arricciando il labbro superiore. Poi si chinò su di me, lento e calcolato, arrivandomi ad un soffio dal viso senza smettere di incenerirmi con gli occhi «Te la prendi con me, eh? Proprio con me, che sto rischiando il culo per dirti queste cose? Complimenti, Scarlett.» sussurrò derisorio, con un sorriso meschino «Ma lascia che ti illumini, bambina: non è colpa mia se ti hanno mentito, non è colpa mia se ti eri creata l'immagine della famigliola felice e perfetta, non è colpa mia se invece avevi dei genitori di merda che ti hanno messa in mezzo a queste stronzate.»

Un rumore secco riecheggiò nel silenzio.
La mia mano rimase a mezz'aria e il volto di Josh piegato verso destra.
Chiuse gli occhi, mentre un segno rosso saliva in superficie sulla sua guancia, mostrando l'impronta perfetta delle mie cinque dita.

«Vai all'inferno.»

Non mi aveva seguita mentre correvo via, mentre correvo lontano da lui.
L'aria si era fatta gelida con la sera inoltrata e non aveva aiutato con il freddo che già sentivo nelle ossa.
Ogni respiro mi ghiacciava i polmoni nonostante li sentissi bruciare, il gelo mi aveva morso ogni muscolo mentre correvo a perdifiato verso casa.

Avevo sperato fino all'ultimo che mi raggiungesse, che mi costringesse a restare, che dissipasse ogni mio dubbio sul suo conto e sul mio passato.

Ma non lo aveva fatto.

Era rimasto a guardarmi scappare nella notte, le braccia lungo i fianchi e gli occhi furenti.

Quindi mi ero immedesimata in un'anima caduta, lontana da casa, spaesata e con un passato che non riconoscevo.
Le mie ali erano spezzate e ancorate a ricordi bugiardi, la mente legata ad immagini che facevano a pugni l'una con l'altra, e avevo un dolore acuto nel petto che mi svegliava tutte le notti.

Sbuffai, coprendomi gli occhi con un braccio per schermarli dalla luce di mezzogiorno.
Sarei dovuta scendere e farmi vedere da Mary prima o poi, o altrimenti sarebbe venuta qui a stanarmi di persona.
E farle vedere in che condizioni pietose riversasse la camera o la sottoscritta era fuori discussione, mi avrebbe obbligata a sistemare all'istante.

Corri lontano da me Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora