Dodici

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Il Presidente è fuori Roma per qualche giorno per visitare i luoghi maggiormente colpiti dalla pandemia e io mi sento molto più serena, anche se ogni tanto all'improvviso sento una morsa d'ansia allo stomaco, al pensiero che prima o poi tornerà e mi capiterà di trovarmelo davanti, volente o nolente.

Sono davanti al mio pc a completare quel famoso lavoro sugli edifici scolastici quando vedo la notifica di una nuova mail.
A prima vista noto una pagina di Google Maps con il nome di un albergo di lusso di Roma e penso che sia una mail di spam. Sto per cancellarla, quando vedo che ha l'intestazione "Presidenza del Consiglio dei Ministri".
Sotto la schermata con la posizione dell'hotel c'è scritto Stasera ore 19. Suite 256.

Mi appoggio allo schienale della poltroncina da ufficio, irritata per il tono perentorio del messaggio, che dovrebbe competere solo a me. Penso di rispondergli per le rime. Penso di non andarci neanche morta. Ma è fumo che mi getto da sola negli occhi, so che ci andrò.

Arrivo davanti all'hotel in perfetto orario. Ovviamente sono passata a casa a rendermi presentabile, ma non mi sono vestita in modo particolarmente ricercato e anche il trucco serve solo a nascondere il mio aspetto cadaverico.

Ho quasi timore di varcare la porta a vetri dell'albergo tanto è l'oro e lo sfarzo che rilucono dall'interno.
Mi avvicino alla reception e dico: "La suite 256, per cortesia. Sono attesa".
Il concierge solleva la cornetta e compone il numero. "Buonasera, volevo avvisarla che è arrivata la sua ospite". Poi a me: "Prego signora, la aspettano al secondo piano. L'ascensore è alle sue spalle, in fondo al corridoio" indicando alla sua destra.

Arrivo al piano e non ci vuole molto a capire chi occupi una delle stanze: un agente di scorta all'inizio del corridoio e uno davanti alla porta contrassegnata con il numero 256. L'agente bussa. Nobile apre. Entro.

Mi fa cenno di accomodarmi nel salottino. Sul tavolino sono poggiate pile di fascicoli e un portatile, stava lavorando.
La suite è composta dal salottino, la camera da letto e suppongo che dietro l'unica porta chiusa ci sia il bagno.
Mi siedo, lui rimane in piedi e inizia a parlare.

"Ho preferito che ci vedessimo in campo neutro", inizia.
Io lo guardo con un'aria un po' interedetta.
"Sì, in un posto che non fosse né mio né tuo. Cosa meglio di un non-luogo come una camera d'albergo?"
È nervoso, si tocca in continuazione il mignolo della mano sinistra. Ma perché il mignolo poi? Avrei capito l'anulare, dato che per diversi anni ha portato la fede.
"Quando ci vediamo nel mio ufficio divento una persona sgradevole e poi mi disprezzo da solo. Quando ci vediamo da te...", si ferma e mi guarda, "...beh, non devo specificare altro."
Si tocca il collo e muove la testa a destra e a sinistra, sento distintamente un crac. La tensione della sua vita, delle responsabilità che si trova ad affrontare, si ripercuote sul suo fisico, evidentemente.
"Perché fai quello che fai?", mi chiede a bruciapelo.
"Perché mi piace"
"Permettimi di dubitarne"
"E cosa ti fa pensare di poter conoscere meglio di me quali sono le mie motivazioni?"
"I tuoi occhi"
"I miei...?"
"Sì, il tuo sguardo. Non so come spiegare... tu hai sempre uno sguardo di sfida. All'inizio pensavo che fosse quasi scontato: Dai, non ubbidire ai miei ordini che poi ti punisco, ma li ho studiati per bene i tuoi occhi e no, il significato del tuo sguardo è diverso, molto più spaventoso a dire il vero".
"Addirittura, e che sarà mai!", cerco di stemperare la tensione che sento salire.
"Tu sfidi le persone a stare al tuo livello. A te non interessa dominare, in realtà, a te interessa trovare qualcuno che possa giocare ad armi pari con te. D'altronde i tuoi standard sono molto alti, non è certo semplice"
Mi si sta formando un inopportuno nodo in gola.
"Cos'è, dopo il presidente operaio di qualche anno fa adesso abbiamo il presidente psicologo? E se anche fosse, pensi di essere tu quello che può stare al mio livello?"
"Ah, non lo so. Ma almeno sto cercando di venire a capo di questo intrico che è la tua mente".
Mentre parla si tocca di nuovo il collo. Gli dico: "Cervicale?"
Annuisce.
Mi alzo dall'elegante poltroncina e gli dico perentoria: "Siediti".
Mi fulmina con lo sguardo, quasi a dire ma allora di quello che ho appena detto non hai ascoltato niente?
Sollevo gli occhi al cielo e ripeto con un tono più conciliante: "Siediti qui e dammi anche la giacca."
Esegue.
"Togliti la cravatta e apri i primi bottoni della camicia".
Mi guarda nuovamente malissimo.
Sospiro. Lo fa.
Mi metto alle sue spalle e inizio a massaggiargli il collo e le spalle. Dire che è contratto è davvero un eufemismo.
Dopo qualche minuto in cui ho cercato di sciogliergli i muscoli, sempre standogli dietro gli metto le mani sotto il mento e gli dico: "Stai completamente rilassato, inspira profondamente e poi espira più che puoi".
Mentre espira, tac tac, gli giro velocemente la testa prima a destra e poi a sinistra e poi gliela posiziono nuovamente al centro.
Questa manovra me l'ha insegnata tempo fa un - diciamo così - amico fisioterapista facendomi giurare che non l'avrei mai usata perché pericolosa se non fatta da un professionista. Non so perché l'ho fatta, forse inconsciamente voglio ucciderlo.
"Meglio?", chiedo.
Lui si tocca il collo e mi guarda con gli occhi sgranati: "Sì. Grazie".
"Figurati", dico.
Faccio per allontanarmi ma mi afferra il polso.
Si alza dalla poltroncina, mi prende il viso con entrambe le mani e mi bacia.
È un bacio diverso da quello che c'è stato nel suo studio, non c'è rabbia né volontà di supremazia. È lungo e goloso, ma nonostante ne sia rapita gli metto una mano sul petto e lo allontano da me.

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