Ho bisogno di aria. Non riesco più a respirare, qui dentro. Sarà il profumo dei fiori che, disposti in elaborate confezioni, adornano ogni angolo della sala, a cui vanno a mescolarsi gli effluvi corporali dei tanti invitati, e il sentore fuori luogo del buffet, ma qualcosa in questo enorme salone ricolmo di brulicante umanità mi sta togliendo il respiro.
Rispondo con il mio miglior sorriso all'intricato discorso in cui non so più quale procuratore distrettuale di quale minuscola contea mi sta includendo, insieme ad altri suoi pari, anche se in realtà non capisco quasi nulla di ciò che sta dicendo: il suo accento del Sud e la mia stanchezza si combinano in modo quasi letale e, a parte qualche frase di circostanza, non riesco a dire nulla di utile. L'arrivo di un altro invitato che sembra decisamente più coinvolto nella problematica mi offre l'appiglio per sganciarmi dalla discussione. Abbozzo una frase di scusa e, finalmente, riesco ad allontanarmi. Scanso il cameriere che, un enorme vassoio in mano, mi offre l’ennesimo bicchiere di champagne e cerco un po’ di sollievo dirigendomi sull'ampia terrazza, dove il brusio si stempera nel rumore di un corso d’acqua poco lontano e l'aria pulita della notte si sostituisce a quella viziata dell’interno. Con due dita cerco di allentare un poco il colletto inamidato dello smoking e il nodo del papillon nero e finalmente riesco a prendere un respiro profondo. Non so più a quante cene, pranzi, brunch, barbecue, eventi sportivi, incontri ufficiali e ricevimenti ho partecipato, negli ultimi giorni. Le ultime settimane si sono snodate in una serie pressoché infinita di mani che ho stretto, sorrisi che ho scambiato, discorsi che ho ascoltato, incontri diplomatici cui ho preso parte, e di cui francamente ricordo ben poco. Dodici stati in poco meno di tre settimane, tra Canada e Stati Uniti, attraverso un numero improponibile di città, fino ad arrivare ad New Orleans, dove mi trovo ora, impegnato in un pomposo evento che non so nemmeno classificare, nella faraonica residenza del Governatore della Louisiana.
In questo momento, di tutti questi interminabili giorni trascorsi tra un aereo e l'altro la sola cosa che ricordo in modo vivido sono le due ore trascorse con Nicolò allo Starbucks di Manhattan, strappate cocciutamente al programma incalzante delle mie giornate, e vissute attimo per attimo, come tutto il tempo che trascorro in sua compagnia.
Mi si è spezzato il fiato, quando mi è venuto incontro, per quanto fosse ulteriormente cambiato dall'ultima volta che l'avevo visto: davanti a me avevo un meraviglioso giovane uomo, sicuro ed elegante, che mi stringeva in un abbraccio da cui trasudava tutta la forza dei suoi diciassette anni e che nulla più aveva a che fare col cucciolotto con cui avevo giocato a pallone in soggiorno o che avevo atteso davanti alle scuole elementari, secoli e secoli fa, nella mia vita di prima. Lo stomaco mi si era contratto e il tepore odoroso di dolci e caffè del locale non era bastato ad impedire che la mia anima si ghiacciasse in mille minuscoli cocci al pensiero della sua infanzia lontana e ormai irrimediabilmente perduta.
E anche se ascoltarlo parlare con quella sua nuova voce profonda del suo corso di studi, profondamente determinato nel perseguire gli scopi che si era prefissato, mi aveva gonfiato il cuore di orgoglio, una parte di me aveva pianto lacrime di pietra per quella sua nuova indipendenza, che lo avrebbe allontanato sempre più inesorabilmente da me.
Un'altra perdita, da sommare a tutte quelle che già avevo subito negli ultimi anni. Meno dolorosa, perché meno tranciante e assolutamente inevitabile, ma difficile da accettare in un momento così buio della mia vita.
Faccio qualche passo per raggiungere la balaustra bianca che affaccia sul curatissimo giardino e alzo gli occhi, in cerca delle stelle. C’è un refolo di vento e anche se porta con sé odori e rumori sconosciuti lo accolgo con gratitudine. Alzo il viso, il cielo un immenso drappo nero, e mi ci abbandono.
Credo di non essermi mai sentito così stanco, stufo e inutile. Senza più uno scopo, svuotato. Una specie di ologramma di me stesso, che porta in giro per il mondo l'immagine di me che il mondo vuole vedere ma che non rappresenta più nulla di ciò che sono ora, di ciò che sento, di ciò che vorrei essere.
Continuo a tenere lo sguardo fisso alle stelle e serro forte i denti, per contenere il desiderio di prendere a pugni il marmo candido che sento sotto le mani. Questo viaggio è stato l'apoteosi dell'inutilità, la sintesi perfetta di ciò che è diventata la mia vita, una mera passerella politica, svuotata di ogni significato. E non c’è stata sera, quasi tutte passate in una camera anonima diversa da quella della sera precedente, in cui un istante prima di addormentarmi non mi sia domandato se davvero sia valsa la pena, aver sacrificato tutto ciò che ho sacrificato: affetti, tempo, serenità e molto, molto altro, per arrivare a questo.
A questa sera calda e afosa, nel principesco cortile di una villa che sembra ricostruita sulla planimetria di un set cinematografico, a conversare con persone che a malapena sanno collocare Roma sulla cartina geografica e che non hanno la minima idea di cosa abbiano significato gli ultimi cinque anni per me, quanto siano stati difficili e dolorosi, malgrado l’impressione di serenità e sicurezza che credo di essere sempre riuscito a trasmettere. Così come non sanno -nessuno lo sa, non ho parlato di lei con nessuno- quanto vorrei essere infinitamente lontano da qui, da tutto questo tempo sprecato lontano da me, come vorrei essere, e da lei, che probabilmente non avrebbe paura a starmi accanto, se fossi diverso da ciò che sono.
Chiudo gli occhi e vedo un terrazzo con un glicine abbarbicato e tante lanterne colorate. Sento profumo di torta di mele, di vaniglia e di whisky scozzese.
La gola mi si serra in un lamento che non riesco a trattenere.
Anna. I suoi occhi d’ambra liquida in cui perdermi, la sua bocca dolce, il suo seno morbido, la sua pelle trasparente
Le sue lacrime, di piacere, tra le mie braccia, e di paura seduta davanti a me a quel tavolino, col profumo di tigli nell’aria ed il tramonto di Roma alle spalle, a colorarle di rosa la pelle tenera della gola.
Anna lontana, dall’altra parte del mondo, Anna che forse non sarà mai più mia, che forse scaccerà in modo definitivo dal mio cuore la possibilità di amare che lei stessa ha risvegliato.
Anna che so che non potrei aiutare o tenere al sicuro, perché non c’è modo di proteggerla da ciò che sono se non scomparendo del tutto dalla sua vita. E io non voglio farlo. L’idea di poterla perdere è un pensiero che mi fa male dentro, un tarlo nero che corrode ogni luce, ogni colore. Non voglio perderla. Perché se perdessi la speranza di poter sentire ciò che sento quando sono al suo fianco dovrei accettare che la mia vita si riduca solo a questo: a una lunga serie di esibizioni inutili, paurosamente vuote e ridondanti come un pozzo senza fondo.
Mi ci ero quasi rassegnato, prima che il destino la facesse irrompere nella mia esistenza, avevo accettato un presente di solitudine e di malinconia, convincendomi che fosse una sorta di ammenda per ciò che forse avevo trascurato di curare in passato. Ma aver incontrato lei ha scardinato ogni barriera: voglio credere di meritarmi ancora di amare ed essere amato e voglio amare lei e voglio che lei mi ami… Sento il battito del cuore farsi irregolare e riapro gli occhi, imponendomi di governare il respiro.
Dei passi dietro di me mi impongono di ritrovare al più presto il contegno che si addice al mio ruolo “ Tutto bene, Presidente? Caterina l'ha vista allontanarsi e mi ha avvisato…”
È Giovanni, la mia ombra, invisibile ma sempre presente. Devo essere rimasto fuori per parecchio tempo se è addirittura venuto a cercarmi. “Va tutto bene, Giovanni, grazie” lo rassicuro “due minuti e rientro. È che… mi mancava… l'aria là dentro”
“La capisco, Presidente, fa davvero molto caldo in questo posto. E..” esita un secondo, quasi cercasse le parole giuste, per farmi comprendere ciò che vuol dire davvero “…casa manca molto anche a me” Mi volto, e lo vedo, impassibile come al solito, ma con un velo di comprensione nello sguardo. Annuisce impercettibilmente con la testa, poi gira su sé stesso e riguadagna l'interno della sala.
Devo rientrare anche io, prima che i miei ospiti notino la mia defezione e la interpretino come una sorta di offesa nei loro confronti. Risistemo il papillon, controllo i gemelli ai polsini e sto per muovermi quando sento il trillare di una notifica. Con me porto solo il telefono personale; l'altro, quello istituzionale, in queste occasioni è appannaggio di Caterina che gestisce i contatti con i social e con l'ufficio. Mi sfugge un piccolo sorriso, mentre pesco il cellulare dalla tasca interna della giacca: di sicuro sarà Nicolò, gli ho mandato un messaggio prima di uscire, lo avrà visto solo ora. Sblocco il telefono e il cuore mi manca di un battito.
“Come stai, Presidente?”
Anna.
Non penso a nulla. Non ragiono sul fuso orario, non mi chiedo se sia giusto o sbagliato. Non penso e non ragiono, semplicemente. Soccombo a un bisogno primitivo, quello di sentirla, di stabilire un contatto. Scorro veloce la rubrica e clicco sul suo numero.
Uno squillo. Due. Tre.
“Pronto?”
Dio mio, Anna. Anna, Anna, Anna…
Quasi non riesco a parlare. Milioni di pensieri si rincorrono nella mia mente e si smorzano, prima di diventare parole. Devo fare appello a tutto il mio autocontrollo, per far sì che la voce trovi la via.
“Ciao...”
“ Ciao…”
“Scusami… non ho pensato nemmeno per un attimo a che ora sia in Italia. Ho visto che il messaggio era appena stato inviato e ti ho chiamata. Spero di non averti… Sono così felice di sentirti”
Giurerei di sentirla sorridere. Sorrido anche io e riesco a vederla, la sua bella bocca che si incurva agli angoli.
“Sono quasi le sette di mattina, non preoccuparti, sono sveglia da un pezzo. Ti ho appena visto al tg, eri ad Atlanta, se non sbaglio”
La sento sospirare e la sua voce è un pochino più bassa quando riprende.
“Mi sei sembrato così stanco… e ho pensato di scriverti”
Non sono solo stanco, vorrei dirle.
Sono annichilito, prostrato. Devastato dal pensiero che potrei averla perduta per sempre.
“Sono un po’ stanco in effetti, è stato un viaggio molto faticoso” rispondo “Atlanta è stato tre giorni fa, ora sono a New Orleans, ad un ricevimento degno di Via col Vento. E domani si riparte, destinazione Miami, che sarà l’ultima tappa.” Faccio una pausa e sento il cuore accelerare. Di nuovo non penso, lascio che sia l'istinto a condurmi.
“Presto sarò a casa”
C’è qualcosa nel tono di voce di Anna, quando risponde: la sua voce è più calda, più armoniosa, quasi fosse contenta di sapermi di ritorno. Magari è solo una mia sensazione ma è il primo piccolo appiglio a cui aggrapparmi dopo settimane di desolazione.
“Allora ci vediamo presto, Presidente. Abbi cura di te.”
Dai, Anna, che ce la fai! 🤞🏻♥️
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CIÒ CHE CONTA DAVVERO
FanfictionLa nostra vita è fatta di momenti. Alcuni ci scorrono addosso senza lasciare tracce, altri invece sono destinati ad essere il punto di partenza di eventi che non saremo in grado di controllare e rimangono impressi nella nostra mente e nel nostro cuo...