Capitolo 20 - Foglie e radici

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Mi rifaccio a quanto detto qualche giorno fa da un'autrice molto brava: se il pippone lo si mette all'inizio è davvero brutto segno, è perché si ha paura che gran parte di chi legge si taglierà le vene per la disperazione prima di arrivare in fondo.
In ogni caso eccomi qui, con l'epilogo di questa storia. Che non è quello che avevo pensato ma è quello a cui mi hanno costretta le dita sulla tastiera, che hanno spesso una loro precisa volontà, altrettanto spesso non coincidente con la mia.
C’è tanto di me, in queste righe. E c’è tanto di ciò che vorrei ancora con tutta me stessa ma che non ho più…chi ha la sfortuna immensa di conoscermi di persona lo sa. Vi chiedo scusa fin da ora per la nostalgia che pervade il tutto, ma non sono riuscita a fare altro benché, credetemi, ci abbia provato.
Grazie per la compagnia, davvero con tutto il ♥️




Sporgo un braccio verso il comodino per spegnere la sveglia “Sei davvero sicuro di volerlo fare, amore?…” Mi giro tra le sue braccia e gli deposito un piccolo bacio proprio sotto la mandibola. La sua barba di un giorno mi solletica le labbra e il residuo di colonia di cui porta ancora traccia sulle guance mi sembra il profumo migliore che ci sia al mondo. Fuori, dietro le persiane accostate albeggia appena, è davvero molto presto. Ha la voce rauca, stanca e parecchio insonnolita quando mi risponde. “Certo che sono sicuro. Ho voglia di conoscere i tuoi genitori, così come morivo dalla voglia di presentarti ai miei. Avremmo dovuto farlo già da tempo.” “Lo so…” mi stringo a lui più che posso e mi godo il calore meraviglioso che emana dal suo corpo, ancora completamente abbandonato al riposo. “Ma è la prima giornata libera che hai da settimane e magari avresti voluto trascorrerla in tutt’altro modo.” Deposito una serie di piccoli baci, tra la guancia e la clavicola, poi risalgo e cerco le sue labbra. Adoro baciarlo appena sveglio, gustarmi il vero sapore della sua bocca, e sentirmi stringere dalle sue braccia. Si gira con un movimento fluido e sono sotto di lui “Voglio fare questo viaggio con te, e conoscere il posto in cui sei cresciuta” mi percorre lento con una mano, mentre cerca l'appoggio sul gomito, per potermi baciare. Sento le sue dita scorrere sulla pelle, fino a indugiare con insistenza su una natica “voglio stare con te, ogni minuto, in qualsiasi posto, non importa dove…e voglio fare questo” la mano lascia la natica e arriva in un'altra zona, decisamente più sensibile. Siamo nudi entrambi e le sue dita premono e accarezzano per lunghi minuti, mentre mi bacia, poi lo sento divaricarmi le gambe con un ginocchio, per farsi spazio e entrare, con un sospiro voluttuoso. Sentirlo muoversi dentro è come una scarica elettrica, mi contrae e distende i muscoli in un susseguirsi delizioso e istintivamente mi apro di più, per sentirlo più che posso “Faremo tardi…” sussurro tra un affondo e l'altro “ Siamo gli unici passeggeri” risponde, la bocca sulla mia, “finché non arriviamo l'aereo non parte…possiamo prendercela comoda."

Incredibilmente, poco più di due ore dopo, siamo tutti a bordo dell’aereo che Giuseppe usa per i suoi viaggi e ci stiamo preparando al decollo. I ragazzi, Carlotta in particolar modo, sono entusiasti di questo volo tutto per noi, io invece mi sento in colpa, per l'uso improprio che facciamo di qualcosa che dovrebbe essere usato solo nelle occasioni ufficiali. “Ti ho già detto che provvederò di persona, usando i miei fondi personali…” Giuseppe posa la sua mano sul mio ginocchio e mi sorride. “Dovresti conoscermi, almeno un pochino, ormai”  Sorrido anche io, so quanto sia onesto e rigoroso in questo genere di cose, ma continuo a non sentirmi completamente a mio agio “Certo, però è comunque sbagliato, perché non vuoi che io mi faccia carico della parte mia e dei ragazzi” Lui alza gli occhi al cielo, con una di quelle sue impagabili espressioni a cui sa che non so resistere “Anna, ti prego, ne abbiamo già parlato...” Gli faccio un cenno con la mano, come per accettare il fatto che non ho voce in capitolo ma non demordo “E loro?” indico gli uomini della scorta, seduti alcune poltroncine più indietro. Giuseppe ride, adesso, e scuote la testa, come si fa con i bambini quando fingono di non capire “Loro sono in servizio, esattamente come se fossi rimasto tutto il giorno a lavorare in ufficio o fossimo usciti per andare a prenderci un caffè sotto casa tua. Non cambia nulla, è la stessa cosa.”
Sospiro rassegnata e cerco di convincermi che è tutto a posto prestando attenzione alle istruzioni che arrivano dalla cabina di pilotaggio per il decollo ma qualcosa continua a turbarmi, e Giuseppe se ne accorge, come sempre. Viene a sedersi vicino a me, appena possiamo di nuovo muoverci “Vuoi dirmi cosa c’è che non va? Credevo fossi felice di rivedere i tuoi genitori…” Gli accarezzo una guancia, e gli ravvio per bene una ciocca di capelli. Ma come fa? Come riesce a leggermi dentro così bene? “Sono felice, credimi. È solo che…” guardo fuori e mi perdo a osservare il tappeto di nuvole sotto di noi. È una cosa difficile da confessare, per quanto male mi fa e non ho idea da dove sia meglio cominciare per parlarne. Ci pensa Riccardo, che ha fatto dell'andare dritto al punto, sempre e comunque, il suo stile di vita. “É per la nonna? Non preoccuparti, sono sicuro che quando conoscerà Giuseppe cambierà idea.” Annuisco appena ma continuo a guardare fuori, fino a che Giuseppe mi richiama “Anna?” chiudo gli occhi e sospiro piano, poi mi allaccio al suo sguardo “Io e mia madre non siamo mai andate molto d’accordo: abbiamo caratteri simili, nessuna delle due è disposta a cedere dalle sue posizioni e questo ci ha portato a molti scontri. Il peggiore in assoluto è stato quando ho deciso di trasferirmi a Roma. Mi ha accusato di essere una vigliacca, una bambina capace solo di scappare davanti al dolore, di abbandonare non solo loro ma anche il ricordo di Marco.” Mi fermo, perché credo di non aver mai parlato a nessuno di questa cosa, ma a Giuseppe, ai suoi occhi scuri fissi nei miei è facile raccontarlo. “Non ci siamo più viste, da quando mi sono trasferita. Mio padre è venuto da noi per qualche giorno lo scorso Natale, ma lei no.
E naturalmente ha avuto da ridire anche sulla nostra relazione. Mi ha telefonato apposta per dirmelo, e non ha risparmiato di spiegarmi nel dettaglio perché non avrei mai dovuto legarmi a un uomo come te.”
Smetto di parlare di colpo, perché mi rendo conto di non avere più parole per raccontare, senza dover ricorrere a quelle cattive ed astiose che mia madre mi aveva vomitato addosso all'indomani della nostra prima uscita pubblica. E quelle Giuseppe davvero non voglio che le sappia.
Sento la sua mano avvolgermi la guancia. “Non immaginavo, davvero…se avessi saputo non avrei insistito, credimi.” Gli sorrido, strofinandomi piano sul suo palmo tiepido. “Non è colpa tua, non hai nulla di cui dispiacerti. Ed è una cosa che va risolta. Inoltre voglio davvero che tu veda casa mia, la cantina, i vigneti. E che tu conosca papà. Vi adorerete, ne sono sicura.”

Due ore dopo siamo in auto, diretti da Caselle, dove siamo atterrati, verso la minuscola cittadina in cui sono nata.
Fuori dal finestrino, nitide e azzurre all'orizzonte ci sono le mie montagne, le stesse che guardavo ogni venerdì sera, quando da Torino dove frequentavo l'università tornavo in treno verso casa. E poche decine di chilometri dopo appaiono le mie colline, dolci e costellate di boschi verde scuro e di vigneti già colorati d'autunno, gialli e bruni, e rosso scuro.
Quando imbocchiamo la salita che ci conduce alla casa dei miei genitori mi scopro a dover dominare il respiro. “Siamo arrivati” gli dico a bassa voce e come tante altre volte, Giuseppe comprende e mi stringe forte le dita. Le porta alle labbra senza parlare, poi si sporge e mi bacia lieve la bocca, gli zigomi, le palpebre. Lui è con me, questo vuole dirmi. E insieme, ormai lo so bene, noi due sappiamo affrontare ogni cosa.
Le tre grandi auto scure occupano quasi completamente il cortile. Come sempre prima scendono gli agenti, poi Riccardo e Massimo e Carlotta, che impaziente corre dai nonni, che non vede da tempo. Mia madre la abbraccia e si china a colmarle le guance di carezze. Mio padre le regala un’occhiata amorevole e un buffetto leggero ma i suoi occhi cercano me. Li vedo, mentre scendo dall'auto e affianco Giuseppe, fissi sulle nostre mani allacciate, e poi sul mio viso. Percepisco un guizzo di assenso nel suo sguardo e mi è più lieve raggiungerli ai piedi della piccola scalinata che dal cortile porta all'ingresso di casa. Nonostante ciò mi trema un poco la voce quando faccio le presentazioni. “Giuseppe, ti presento i miei genitori: Elena e Domenico” Percepisco appena la stretta vigorosa con cui i due uomini si salutano e il piccolo inchinarsi elegante che Giuseppe riserva a mia madre.
I miei occhi sono tutti per quelli azzurrissimi che non si sono staccati dai miei.
Sono tra le sue braccia, quasi senza rendermene conto. “Ciao papà” È un poco più curvo e anche un po’ dimagrito, da quando l'ho visto l'ultima volta ma la sua stretta intorno alle mie spalle è forte come sempre: un nodo caldo che mi avvolge, sicuro e antico come la terra a cui ha dedicato tutta la sua vita, che ama più di sé stesso e che mi ha insegnato ad amare, con lo stesso trasporto. Appoggio la guancia sulla sua spalla e la sua mano nodosa e scurita dal sole sale ad accarezzarmi i capelli. “Ciao, stella…come stai?” Respiro forte la stoffa su cui sono appoggiata: sapone e sigarette, come tanti anni fa. “Sto bene papà, va tutto bene.” È vero, va tutto bene. C’è profumo di mosto e di rose, quelle tardive, del giardino di mamma. E c’è lo stormire del noccioleto poco lontano, e i richiami delle ultime rondini. Andrà tutto bene, ne sono certa: parlerò con la mamma, cercherò di spiegarle, di raccontarle che l'amore ha voluto darmi ancora una possibilità, e che ho voluto coglierla. Sospiro, racchiusa tra quelle braccia che sono state molto più forti di così ma che sono ancora un posto immensamente sicuro. Sono a casa.

Le ore successive scorrono veloci, intervallate da un piccolo spuntino che sostituisce il pranzo, come si usa durante la vendemmia, quando il tempo a disposizione va sfruttato al massimo e la cena diventa il pasto principale della giornata.
Insieme a papà mostro a Giuseppe l'immensa cantina che corre sotto tutta la casa dove si mescolano il moderno delle attrezzature attualmente in uso agli attrezzi del passato, alcuni vecchi più di un secolo, restaurati e custoditi con cura, per fare sì che nulla della tradizione di questi luoghi vada perduto. Mio padre li illustra con orgoglio a Giuseppe, spiegandone il funzionamento e con altrettanta fierezza gli mostra una fila di bottiglie allineate in una vetrinetta. “Queste ci hanno fatto vincere parecchi premi… è un vino rosso, corposo e fruttato, che ha tutti i sapori della nostra tradizione” deglutisce e gli sento affievolirsi un poco la voce . “È il vino di Anna, lo ha creato lei. È un'enologa eccezionale, anche se di sicuro lei non gliene avrà parlato” Giuseppe mi guarda e scuote un poco la testa “No, infatti. So che è una donna eccezionale” e la sua voce diventa velluto sulla parola donna  “ma le sue doti in questo campo non le conoscevo” “Allora le deve scoprire immediatamente, Presidente. Anna, stella, vuoi prendere un cavatappi, per favore?”
Acconsento, ho capito che papà vuol parlare con Giuseppe senza di me e mi allontano, per recuperare ciò che mi è stato chiesto. È un piccolo viaggio nel passato quello che compio, avvolta dal profumo del mosto in fermentazione e dal salnitro delle pareti, un viaggio che mi parla di una vita lontana ma che per la prima volta da tanto, riesco a ricordare con dolcezza, senza più lacrime o sofferenza.
Quando torno trovo Giuseppe e mio padre allacciati in una stretta di mano, occhi negli occhi, la mano grande di Giuseppe sulla spalla fragile di papà: sono certa di essere io al centro di quel patto muto e devo fare uno sforzo enorme per ricacciare le lacrime, il petto incendiato dall'amore dirompente che provo per entrambi.

Ne parlo qualche ora dopo con Giuseppe: siamo in cima alla collina dietro a casa, avvolti dal fruscio delle foglie di un mandorlo gigantesco, vecchio più di mio padre. Abbiamo camminato a lungo, attraverso i vigneti della tenuta, e ora siamo qui, allacciati l'un l'altra, lo sguardo fisso sull’estensione di colori autunnali intorno a noi.
“Parlavate di me, prima, tu e papà?”
Alzo il viso per guardarlo e vedo distintamente la sua mandibola contrarsi, qualsiasi cosa si siano detti deve averlo emozionato molto.
“Sì, mi ha chiesto di custodirti, anche quando non ci sarà più lui. E di avere cura dei suoi nipoti.” Lo allaccio con entrambe le braccia e affondo il viso nel suo collo. Sento una lacrima travalicarmi le ciglia, ma non faccio nulla per fermarla. Anche la voce di Giuseppe è spezzata, commossa “Mi ha detto che di tutto ciò che possiede sua figlia è di gran lunga la cosa più infinitamente importante. E che ti affida a me, sapendo che ne sarò all'altezza”
Mi sente singhiozzare e mi stringe forte fino a quasi a spezzarmi il respiro. Restiamo allacciati a lungo, fino a che il mio pianto si acquieta e il sole comincia lentamente a scendere nel cielo che si sfuma di blu scuro.
Torniamo verso casa, ma prima di entrare c’è un ultimo posto che voglio mostrare a Giuseppe.
Corre lungo il lato sud della casa, e fiancheggia il prato ben curato e costellato di cespugli di rose.
Il mio paradiso di bambina, tufo e gelsomino.
Giuseppe lo riconosce, e sorride
“Ami questo posto vero?” e si guarda intorno, includendo ogni cosa: la casa, i vigneti, le rose, il profumo appena accennato di fumo e il brontolare sommesso di vino nuovo che sale dalle cantine. Sorrido a mia volta, prima di rispondere “Immensamente. Non so se saprei vivere, sapendo di non poter tornare qui, di tanto in tanto. Questo posto è ciò che sono, la parte più vera di me…” appoggio la mano sul muretto e Giuseppe fa lo stesso, sovrapponendo le sue dita alle mie.  Il gelsomino è sfiorito da tempo, ma il tufo conserva il tepore del sole, malgrado la sera di fine settembre si intuisca nel cielo sporcato di scuro e nell'alito fresco che mi spinge a cercare il calore del suo corpo ”Io sono tutto questo: questa pietra, questa terra…sono stata plasmata qui e sarà parte di me, fino al mio ultimo respiro. Ho provato ad insegnare l'amore per la vita che rinasce che la campagna ti insegna, ciclo dopo ciclo, inverno dopo inverno, ai ragazzi e spero di esserci riuscita.” Sento le sue braccia avvolgermi e le sue labbra sfiorarmi i capelli. “E spero che la amerai anche tu, la mia terra di nebbia benché sia così diversa dal trionfo di luce e mare della tua.” “Io amo te,” risponde “e tutto ciò che ti ha resa ciò che sei.” Restiamo abbracciati nella penombra della sera fino a quando Carlotta scende correndo dai gradini di casa, per annunciarci che la cena è in tavola.

In salone ad attenderci ci sono già i miei genitori e Riccardo e Massimo.
E, incredibilmente gli agenti della scorta. Giovanni scatta in piedi e guarda imbarazzato nella nostra direzione “Non abbiamo potuto opporci Presidente: la signora Elena ci ha praticamente obbligati” Giuseppe ride di cuore e gli appoggia una mano sulla spalla, perché torni a sedersi tranquillo. “La ringrazio, Elena” dice poi rivolto a mia madre  “e le faccio i miei complimenti: generalmente i miei uomini sono difficilissimi da convincere!” Lei sorride di sottecchi e per la prima volta da quando siamo arrivati mi pare di cogliere un’espressione più morbida, sul suo viso, e un barlume di serenità nel suo sguardo.
Papà reclama Giuseppe alla sua destra, nel posto che fu di Marco e io, per un minuscolo istante,  fatico a ingoiare le lacrime. In qualche modo, lo sento e so che lo sente anche Giuseppe, c’è posto anche per lui, a questa tavola: un posto che non è più strazio e rimpianto, ma ricordo dolce e carezzevole ed eterno, impresso vivo nei suoi figli che sorridono a me e Giuseppe, senza più ombre nel fondo degli occhi.

Vedo mia madre allontanarsi verso la cucina e la seguo per aiutarla con i piatti di portata. Finora non ho avuto modo di stare sola con lei anche se ho percepito il suo sguardo su di me e su Giuseppe per tutto il giorno. Non so se riuscirò a chiarirmi ma desidero almeno  provarci, non voglio lasciare tra noi questo silenzio freddo e distante. Sto disponendo con cura gli affettati in un piatto quando avverto le sue dita sul mio braccio: sono salde, ma al contempo colme di una tenerezza che in lei non ricordavo.
“È un uomo meraviglioso” mi dice.
Alzo gli occhi sorpresa e mi perdo nella profondità di ambra antica dei suoi, fermi e gioiosi, malgrado un piccolo baluginio di lacrime.
“Mi sono sbagliata e ti chiedo scusa, per ciò che ti ho detto…avevi ragione tu, su tutto.”
Faccio fatica a respirare, per lo stupore e la felicità, ma riesco a portare la mano sulla sua guancia tiepida e segnata dai tanti anni, dalle sofferenza e dalle gioie.
“I tuoi figli lo adorano e lui adora loro. E adora te. Saprà renderti felice, lo vedo da come ti guarda, e nessuno lo merita più di te...” Non riesco a parlare, e non riesco a impedirmi di piangere. La abbraccio stretta e le sue mani sono sui miei capelli, lievi ad accarezzarli e cullarmi, come faceva quando, secoli fa, il mio orizzonte era lei e niente altro. Le voglio bene, non ho mai smesso di volergliene, e sono così immensamente felice di poterglielo dire che temo mi si schianti il cuore.

Quando torniamo in sala da pranzo Giuseppe, le maniche rimboccate e lo sguardo acceso, sta aprendo una bottiglia di vino e nel contempo sta provando a tradurre un proverbio pugliese che parla di vino, di donne e di danni a mio padre. Riccardo e Massimo che ne hanno intuito il senso ridacchiano e ora ride pure papà, le rughe un reticolo fitto sulla fronte e gli occhi illuminati di allegria.
Lascio il passo a mia madre e al suo vassoio, accolta da un coro di voci festose e faccio correre lo sguardo nella stanza.

Eccola, la mia vita: radici, salde ed inamovibili, e rami giovani, duttili e invincibili pronti a ricoprirsi di foglie verdissime, e ad ospitare la vita.
I miei genitori e miei figli.
E il mio uomo, il tronco solido cui appoggiarmi, intenso e vero, fragile e immensamente forte. Sente il mio sguardo su di lui, lo ricambia e mi sorride. Gli sussurro ti amo, solo con le labbra e lui annuisce piano e risponde nello stesso modo. Abbraccio con lo sguardo ogni cosa intorno a me e trattengo il fiato, troppo felice anche per respirare: in questo preciso, meraviglioso  momento, tra queste mura, ho tutto ciò che desidero.
Tutto ciò che conta davvero.

FINE

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