Capitolo 25

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Siamo in centrale da cinque minuti. Chris parla con l'agente Hammond, le dice che abbiamo il diritto di vedere mia madre, che sono suo figlio, che non possono trattenerla.

Io mi sento con la testa pesante e il corpo svuotato. Forse è davvero un sogno a occhi aperti quello che sto vivendo, un assaggio di incubi e terrori, l'inizio del mio personale inferno.

Avevo sperato di lasciarmi il passato alle spalle, una volta venuti qui, a Heaven's Hill, ma mi sbagliavo. Niente come il passato potrà mai lasciarti andare, soprattutto quando ti lascia cicatrici profonde lungo la schiena.

«Bene, allora chiamerò un avvocato», sbotta Chris prendendo il cellulare.

«Va bene, va bene», interviene l'agente Hammond, facendo scuotere la sua nera coda da cavallo. «Ma solo lui può entrare».

La donna punta i suoi occhi scuri su di me e quasi mi sembra di sparire davanti al suo sguardo. Non capisco perché la trattengono, non capisco perché non le è stato affidato immediatamente un avvocato. Non capisco dov'è lo sceriffo. So solo che mia madre è nella cella della centrale di polizia e che l'agente Hammond mi sta conducendo proprio lì.

Mi volto indietro per trovare lo sguardo di Chris. Lui mi sorride, ma risponde a una chiamata e i suoi occhi perdono il contatto con i miei.

«Mamma!».

Dietro spesse sbarre di ferro, fredde come stalagmiti di ghiaccio, mia madre è seduta su una scomoda branda, con la testa fra le mani.

«Cinque minuti», impone l'agente Hammond, chiudendosi la porta alle spalle.

«Mamma...». La mia voce è sempre più flebile.

La stanza in cui siamo è illuminata dalla luce del sole che filtra attraverso il pannello di vetro opaco sul lato est della parete. Ci sono due grandi celle, abbastanza da contenere una decina di persone, ma solo quella di fronte a me è occupata.

Mia madre risponde alla chiamata e il suo volto si solleva dall'oscurità. Scatta repentina nella mia direzione e le sue mani stringono le mie attraverso le sbarre. Sono talmente strette da non riuscire a toccarci con la fronte, ma i nostri occhi sono incatenati, l'uno all'altro, nell'amore che ci ha sempre dato forza.

Tuttavia, in quelle iridi azzurre, sono visibili i segni del pianto, e il suo viso non mi è sembrato mai così vecchio. È come se d'un tratto, il peso del mondo fosse caduto sulle sue esili spalle. E io mi sento impotente. L'ennesima situazione in cui il turbinio delle cose mi trascina.

Non sono mai stato in grado di resistere, di prendere in mano i miei problemi e trovare una soluzione. Mamma c'era sempre stata quando ne avevo bisogno. Lei si è sempre occupata di tutto. Anche dopo la nostra partenza...

«Perché sei qui?».

«Amore mio, va tutto bene...», mi dice cercando le mie guance rosse con le sue mani.

Sento i duri polpastrelli incontrare le mie lacrime, le mie labbra cercare di resistere al pianto, tremare... «Non è vero... Perché sei qui? Perché non ti lasciano andare? Non hai fatto niente!».

Mia madre abbassa lo sguardo, le sue mani si staccano leggermente dal mio viso e avverto improvvisamente il gelo delle sbarre attraversarmi tutta la schiena.

«Mamma?».

«Tuo...», singhiozza. «Tuo...».

«Lo so...», sospiro. «È morto!».

Dirlo è quasi una liberazione, una concretizzazione della realtà. Mi fa sentire bene, mi rende leggero. Eppure... non ne sono del tutto convinto.

«Ma non sei stata tu, non è vero?», mugolo cercando di afferrarmi alle sue braccia. «Lui se ne è andato... non è stata colpa tua!».

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