Capitolo 26

587 39 2
                                    

20 giugno 2009

Sento un profumo fresco e inebriante, come l'odore della pelle dopo un giorno di mare.

La sua mano è tra i miei capelli, mentre l'altra mi accarezza il viso. Ha un tocco delicato, morbido e ho voglia di cercare quella mano per baciarla, ma sono tra le sue braccia, nel suo letto, e non voglio interrompere questo momento.

Josh respira lentamente. Il suo corpo è adagiato perfettamente al mio e sento la voglia crescere e farsi strada nelle mie vene.

Non lo avrei mai pensato o sperato, ma è successo. Ho desiderato un'altra persona, un altro ragazzo come me. Il mio cuore, per la prima volta, ha provato emozioni diverse, differenti. Si è diviso. Due parti imperfette, imprecise, che non sono più in grado di ritornare insieme.

Eppure così simili. L'una che anela l'oscurità, quel vortice di lussuria e amore che solo lui è in grado di soddisfare; l'altra ricerca la luce, il riflesso di quegli occhi verde smeraldo affogati in una conca di mare ghiacciato. Mi stregano, mi maledicono, mi rendono pazzo. Le mie membra quasi soffrono nel dividersi tra queste due realtà, tuttavia, come un avaro egoista, ho bisogno di bere da entrambi i calici di questa passione, anche se ciò significa farsi del male.

Sono passati solo cinque minuti da quando mi sono risvegliato nel suo letto o solo cinque secondi o cinque ore... Il tempo è un concetto astratto al momento, ma sto cercando di ricordare come sono finito qui.

D'un tratto, la mano di Josh mi accarezza la guancia e ciò che mi strappa via è un sussulto.

«Scusami, ti ho fatto male?», mi chiede portandosi su di me.

Non era stato lui a farmi male, ma quel ragazzo alla festa che mi aveva sferrato un pugno in faccia.

Scuoto la testa e gli sorrido. Questa scena è talmente surreale che ho paura di risvegliarmi da un momento all'altro. Se non fosse per il pulsare del livido sotto il mio occhio, giurerei di sognare. Chi l'avrebbe mai detto che Josh Merrick mi avrebbe baciato? Quel ragazzo delle docce che non avevo mai visto prima. Erano passati mesi da quello strano giorno d'autunno. Da allora i suoi occhi avevano monopolizzato i miei pensieri. Non ci riuscivo, era impossibile. Avevo tentato con tutte le mie forze di dimenticarlo, di ignorarlo, ma più ci provavo e più volevo sapere chi era, da dove veniva, qual era la sua storia.

Avevo iniziato a seguirlo sui social per capire chi fossero le sue amicizie. Non era stato difficile scoprire che era un anno più grande di me, che si era trasferito qui dalla lontana Boston e che suo padre era un'importante imprenditore. Viveva in una villetta a schiera, nel quartiere lussuoso della città, con tanto di giardino davanti e dietro casa. Lo confesso: l'ho seguito una volta dopo la scuola, ma non l'ho più rifatto. Sapevo che era sbagliato, ma avevo bisogno di capire.

Perché mi aveva ossessionato così tanto, perché non riuscivo a cacciarlo via della testa? Cos'era questa sensazione di vuoto allo stomaco, questo dolore al petto che non mi faceva respirare?

E poi un giorno di marzo, d'un tratto, ha iniziato a osservarmi anche lui. Mi salutava tra i corridoi o mi aspettava durante gli allenamenti sportivi. Ovviamente ci misi un po' a capire del suo reciproco interessamento, ma inizialmente che ne potevo sapere.

Nessun indizio era stato palese fino a ieri sera.

Come da tradizione, la scuola aveva organizzato il suo ballo di fine anno. La classica festa dove ogni ragazza sogna di essere invitata. Io non volevo andare, quel posto non era fatto per me, ma mia madre aveva insistito.

Anche se non avevo nessuno con cui andare, questa era una tradizione a cui non dovevo rinunciare. Così mi aveva comprato un nuovo paio di jeans, delle scarpe e una camicia. Aveva preso anche una giacca blu, ma avevo fatto parecchie storie prima di indossarla. Alla festa, vestito in quel modo, mi ero sentito ancora più a disagio. Per mamma ero bellissimo, ma io vedevo solo un ragazzino smilzo con una taglia sulle spalle più grande di lui.

Quando avevo fatto la mia comparsa, gli occhi dei miei compagni si erano posati su di me. Persino loro stentavano a credere che l'asociale della classe avesse deciso di partecipare al ballo di fine anno, da solo. Ero fuggito da quegli sguardi il più in fretta possibile, trovando un posto a sedere lontano dalla pista e vicino al tavolo degli snack.

Avrei aspettato solo cinque minuti, poi avrei girato i tacchi e me ne sarei andato. Il piano era quello, semplice e pulito. A mamma avrei raccontato che "qualcuno" mi aveva offerto un passaggio (sicuro ne sarebbe stata felice). Non avevo paura di fare una lunghissima passeggiata fino a casa, sarebbe andata bene così.

Fu allora che accadde.

Incurante di dove mettessi i piedi, ero andato a sbattere contro qualcuno molto più grosso di me. Il quaterback della squadra o qualche palestrato della scuola? Era di sicuro strafatto, di alcol e di fumo. Lo sentivo dalla puzza che emanava il suo alito.

Insieme ai suoi amici, avevano iniziato a prendermi in giro, senza che riuscissi a trovare di rispondere. Ai loto occhi, sarò sembrato un povero scemo, perciò mi ero meritato quel pugno che arrivò dritto in faccia.

Forse era questo che stavo aspettando, era questo che volevo. Qualcosa che mi facesse stare male, che mi facesse piangere. Avevo bisogno che qualcuno mi guardasse dentro e mi riempisse di vergogna. Non m'importava dell'eco lontano dei loro scherni, né dei loro corpi che si piegavano in due dalle risate. I loro insulti mi scivolavano addosso, come l'acqua sulla roccia. E proprio come una roccia, il mio corpo stava a terra a fissare quel cielo blu sopra di me.

Non c'erano stelle, non c'era nemmeno la luna. Era un manto nero e profondo, un'oscurità che divideva la terra dall'universo, la mia anima dalla salvezza.

E poi era giunto il suo viso, i suoi occhi verdi e blu, i suoi ricci scuri, la sua mano.

Aveva spintonato l'altro ragazzo, gli aveva detto qualcosa, poi si erano allontanati. Josh era tornato da me, con aria preoccupata e un'ancora a cui aggrapparmi. Mi aveva aiutato ad alzarmi, a pulirmi il sedere dalla terra, quindi si era offerto di portarmi a casa.

Non la mia casa.

L'avevo capito quando, in silenzio, eravamo giunti in un quartiere con le villette a schiera. Mi aveva messo un braccio sotto la spalla, quindi barcollando eravamo giunti sotto il portico della sua dimora.

«Stai bene?», mi aveva chiesto, ma i miei occhi facevano fatica a guardare i suoi.

Risultava più semplice focalizzarsi sul tappetino con su scritto "Welcome". Niente era diventato più imbarazzante di quel momento. E se prima avevo ricercato questa sensazione, adesso volevo che sparisse.

«Perché mi hai aiutato?», furono le prime parole che riuscii a dire dopo un'intera serata di autocommiserazione.

Josh aveva fatto una smorfia, un sorriso un po' strano che gli aveva fatto spuntare una fossetta sulla guancia. «Credevo che dopo tutti gli scambi di sguardi di queste ultime settimane, avessi capito qualcosa».

E quella notte, sotto quel portico dalle luci soffuse, tra i gerani, le sculture in pietra e il tappetino di benvenuto, Josh si era avvicinato a me, prendendomi la mano. «Tu mi piaci», mi aveva detto.

Poi le sue labbra si erano posate sulle mie.

Successivamente, erano arrivati altri baci, altre carezze, e una strada breve verso la sua camera da letto.

Non c'era stato nulla di più, se non qualche abbraccio che mi aveva riempito il cuore di gioia.

«No, non mi hai fatto male», gli dico sollevando la testa dal suo cuscino, ritornando con la mente in questo esatto momento. «Sono solo felice di stare con te».

Josh mi sorride, di mattina i suoi ricci scompigliati sono ancora più belli.

«Vuoi fare colazione?».

Annuisco, mordendomi le labbra.

Poi il cellulare suona, e una telefonata mi schianta rudemente contro la realtà.

È mio padre. È furioso. «William, dove cazzo sei?!».

StarfallDove le storie prendono vita. Scoprilo ora