Capitolo 1

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2 giugno, 2011

Siamo in macchina da circa tre ore e ho la nausea. Ho solo bisogno di scendere e prendere aria, ma mia madre non si fermerà. Non ha mai staccato le mani dal volante né distolto lo sguardo dalla strada da quando siamo partiti. Non abbiamo mangiato, non abbiamo bevuto. Una telefonata, pochi bagagli, qualche soldo...

E Heaven's Hill.

Questa città è fredda, umida e piovosa. Mi rendo conto che potrebbe piacermi. La gente sembra simpatica e socievole, vivendo nelle loro graziose case anni '60. Ci sono alti alberi verdi che costellano le strade e una piazza con una grande caffetteria ad angolo. Ci siamo appena passati e sembra addobbata a festa.

Non vedo l'ora di arrivare alla nuova casa, nonna ci starà aspettando. Non l'ho mai conosciuta veramente. I primi tempi andavamo a farle visita più spesso, ma ero troppo piccolo per ricordare.

Finalmente arriviamo in una grande via adornata da enormi alberi di pesco. Le villette che si affacciano sulla strada sono una più bella dell'altra. C'è una grande casa in stile vittoriano che cattura la mia attenzione. Gli infissi sono bianchi e le tende color senape. Ha il giardino più grande di tutto il quartiere e alti cespugli verdi lungo le mura. Trovo questo posto piacevole, nonostante il cielo lugubre e il freddo che punge la pelle. Di certo, un netto passo avanti rispetto al passato.

Mamma si ferma davanti al cancelletto di una piccola abitazione a due piani. Sembra carina e graziosa, come una casa delle bambo... No... non mi piace questa similitudine. È graziosa. Punto.

C'è un lungo vialetto contornato da cespugli di rose dalla strada alla porta. Un piccolo cestello di fiori bianchi, appeso al batacchio in ottone, e un tappetino verde con su scritto WELCOME ci accolgono silenziosi.

«Hai preso tutto?», mi chiede mamma.

Guardo le mie mani, le valigie e i borsoni. Annuisco. Non ho voglia di rispondere. 

Mamma suona il campanello. Ha un suono lieve, spero che la nonna lo sentirà. Ho voglia di rivederla. 

Mamma suona ancora e finalmente vediamo la porta aprirsi. Una piccola vecchietta compare sull'uscio con un sorriso tirato. Ha gli occhi piccoli, ma acquosi, di un azzurro impossibile... sembrano i miei... Ora so da chi ho preso. L'anziana signora sembra leggermente sospetta nei nostri confronti, ma quando estrae gli occhiali dalla tasca della lunga tunica blu a pois bianchi per metterseli sul grosso naso a patata, la sua espressione si addolcisce in un caloroso sorriso. «Martha! Siete arrivati! E questo è William?».

Abbozzo un sorriso, ora sì che sembra simpatica. «Ciao nonna», rispondo imbarazzato. 

Nonna Kathy ci invita a entrare con foga, accompagnandoci verso le nostre stanze per posare le valigie. La casa è ben tagliata e offre ampi spazi. Non ci sono tanti mobili, ma quadri e oggetti da collezione: portacenere, statuine, confetti e bomboniere. Le lampade appese al muro hanno la forma di grandi fiori appena sbocciati e i tappeti bordeaux coprono dei lisci pavimenti in parquet. 

La mia stanza è... un po' pacchiana. C'è un grande letto a baldacchino con lunghi drappi verdi. Anche le tende richiamano lo stesso colore. Un grosso armadio scuro occupa lo spazio ai piedi del materasso. Una scrivania, un comodino e un baule completano il tutto.

«Ti piace?», chiede nonna Kathy non troppo convinta. 

Cerco di farmela piacere.

«Se ti va' possiamo buttare via tutto», continua sorridente. «Era per gli ospiti questa stanza, ma possiamo renderla più moderna, come piace a voi ragazzi».

«Mamma, grazie, ma non c'è bisogno», risponde Martha.

Nonna Kathy scuote la mano e assume un'aria da capitano. «Sciocchezze! Chiamo subito George e domani lo faccio venire... Di che colore vorresti la stanza, caro?».

Dice a me? Posso scegliere il colore... è strano, non pensavo avessi questa possibilità. «Blu... anzi... azzurrino, celeste... un blu chiaro, insomma», balbetto confuso.

«D'accordo caro, ti lascio disfare le valigie», mi dice nonna. «Andiamo Martha, ti mostro anche la tua stanza...».

Chiudono la porta e resto da solo.

Mi chiedo dove sono finito e se riuscirò mai a dormire in questo letto. Sembra la stanza di un re ma io non sono nessuno. Poggio la mia valigia ai piedi del letto, evitando di toccare i lunghi drappi verdi intorno al materasso. Mi siedo sul letto. È morbido. Mi sdraio e fisso il soffitto. C'è un po' di muffa agli angoli. Anzi, ora che ci penso, c'è anche un cattivo odore.

Sposto le tende dell'unica finestra e apro i doppi infissi marrone scuro. Il tempo sta mutando e mi ritrovo un caldo sole estivo che mi riscalda tiepidamente la pelle. Davanti a me, la strada con gli alberi di pesco e, in lontananza, la grande casa vittoriana con l'enorme giardino. Intravedo un ragazzo uscire fuori, ma non riesco a decifrarne i contorni: è troppo lontano. Lo inseguo con lo sguardo e noto che ha una grossa borsa sulla spalla, forse la fodera di una chitarra o di un clavicembalo. Mi appoggio con le mani al vetro finché la sua sagoma non scompare, a quel punto mi rendo conto di un sottile strato di polvere sopra i miei palmi. Questa stanza avrebbe bisogno di una ripulita, ma ora non ho le forze. Mi lascio semplicemente cadere sul letto ancora una volta, fissando il soffitto.

Mi sento solo, mi sento sporco dentro. Siamo venuti qui per fuggire da quello che abbiamo passato, ma so che non ci sarà luogo in cui potrò nascondermi. Ho paura e provo vergogna. Provo vergogna perché ciò che mi ha distrutto lo desidero ancora come l'ho desiderato tutti i giorni della mia vita.   

Mi basta solo chiudere gli occhi e lo rivedo su di me, con i suoi occhi scuri nascosti da quegli occhiali tondi e i peli irti che mi graffiano la pelle. Lo vedo mentre mi stringe a sé, al suo petto, al suo cuore. Mentre allunga le mani per avvinghiarmi le natiche. Posso immaginare persino il suo respiro su di me, l'affanno del suo ardore.

Ma so che questo non è il ricordo dell'uomo che ho conosciuto di recente. Appartiene a un passato più lontano, quando tutto sembrava innocente e nessun bacio era sbagliato.

Poi mamma grida dalla cucina: «William è pronto!».

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