Capitolo 37

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Nella mia testa si disegnano tutti gli scenari peggiori, ma non voglio crederci. Non voglio arrendermi all'idea che sia successo qualcosa di terribile.

Eppure niente di ciò che ho di fronte riesce a rincuorarmi.

La sirena della polizia continua a lampeggiare, mentre nonna Kathy si stringe al vice sceriffo con un fazzoletto bianco in mano. C'è persino l'agente Garcia e l'avvocato di mia madre. Perché tutte queste persone? Persino i vicini sono usciti dalle loro case, attratti dallo spettacolo.

Mi avvicino, la stringo. «Nonna», la chiamo. «Che cosa succede?».

Lo avverto: un brivido silenzioso lungo la schiena. È appuntito come l'artiglio di un felino e scende giù, dall'attaccatura dei capelli alla punta dell'osso sacro. È una linea lungo la colonna vertebrale, un soffio d'aria gelida che spazza via tutto il calore nel mio corpo.

Le dita delle mie mani sono terribilmente fredde e insensibili, e a fatica si stringono attorno alle spalle di nonna. Anche lei trema, per i singhiozzi. Cerca di cacciare via le lacrime, ma il suo volto è devastato, irriconoscibile. Mi suscita infinita tenerezza. I suoi grandi occhioni azzurri sono lucidi come palle di neve, mentre la bocca si arriccia in un broncio tremulo.

Non posso sopportare di vedere il suo dolore, questo tormento che mi ha già preso a sé. Lo sento fisicamente nelle mie ossa, nella mia pancia. Ho come un brontolio, un morso che divorava i miei organi interni e mi lascia senza fiato.

È l'avvocato di mia madre che si avvicina, con un'espressione truce che lascia presagire nulla di buono.

«William», inizia Crystal Brooks, ma i suoi occhi fuggono in fretta dai miei. «Ho brutte notizie per te».

«C-c-cosa?», balbetto. Mia madre è stata condannata all'ergastolo? Alla pena di morte? Cosa?! «Parli, maledizione!».

«Non so come dirtelo...», risponde a testa bassa e tra le mie braccia, nonna scoppia in una nuova crisi di pianto. Perché fa così?

«Tua madre», sentenzia l'avvocato. «Tua madre è morta».

La vista si sfoca: vedo doppio, triplo, quadruplo. I contorni dei visi tremano, mentre la gola si restringe fino a non lasciar passare un filo d'aria. Ho gli occhi lucidi, ma sono ancora incredulo. «No... non è possibile...».

«Tua madre ha cercato di fuggire, questa sera», interviene il vice sceriffo. «Ha sedotto lo sceriffo O'Donnell ed è riuscita a prendergli le chiavi della sua cella».

Queste frasi non hanno senso. Sono pura follia. Sono talmente assurde che mi metto a ridere. «Che cazzo dite?».

«È così!», conferma il vice sceriffo rifilandomi occhiate interrogative. «Tua madre ha preso un'arma e stava per sparargli».

Mia madre prendere un'arma? E come avrebbe fatto?

«È partito un colpo», continua il vice sceriffo. «O'Donnell non ha potuto fare a meno di difendersi...».

O'Donnell? I suoi occhi neri sono sopra di me e mi schiacciano come un insetto. «L'ha uccisa...».

«È stata autodifesa», mi corregge l'avvocato.

Ma non è vero. Io so che non è vero. Mamma me lo aveva detto di stare lontano da lui... E lui l'ha uccisa.

Mi stringo più forte a mia nonna e crollo con la testa sulla sua spalla. «NOOO», grido straziato, divorato da dentro. Brucio per ogni lacrima sul mio viso, e muoio dentro. Sento staccarsi un pezzo di me, un dolore che non ho mai provato prima.

«Ci dispiace, William...», dice l'avvocato.

«Vi dispiace?», faccio eco. «Andate a fanculo! Andate via! ANDATE VIA!».

«Calmati», singhiozza nonna Kathy. «Calmati, tesoro mio...».

Ma come potrei calmarmi? Questo dolore mi sta facendo impazzire. Vorrei affondare le dita nel mio petto e strapparmelo via.

Corro dentro casa, salgo le scale e mi rifugio nella mia stanza. Grido. Grido e sbatto contro i mobili. Prendo a pugni le ante dell'armadio, butto giù le coperte dal letto e provo a strapparle, ma la stoffa è resistente e allora me la prendo con la sedia della scrivania. La sollevo, la getto a terra. La riprendo e la butto contro uno dei pilastri del letto a baldacchino, fino a quando il legno non si rompe e le schegge escono fuori, ruvide, appuntite. Le afferro. Afferro quel piede di legno sdentato e lo conficco nel letto. Immagino che quella sia la faccia di O'Donnell. Voglio ucciderlo! Voglio vedere il suo sangue schizzarmi in faccia!

Lo odio! Lo odio! E urlo ancora. Ruggiti, grida isteriche. Ma non è abbastanza. Non è mai abbastanza. Questo dolore è ancora qui, nel petto e non vuole andare via. Così riprendo a pugni l'armadio, sbiancando le nocche fino a farmi male. Ma la verità è che non sento niente. Questo sangue, tra le mie dita, non è caldo e non è freddo.

Non è niente.

E la testa trema, convulsa, mentre il mio viso si deforma agli spasmi del pianto. Grido. Sbatto la testa, un colpo in fronte contro l'anta dell'armadio. Mi stordisce, mi solleva da un peso.

Improvvisamente, il mondo inizia a girare intorno e tutto sembra più leggero. Il mio corpo, le mie gambe. Mi portano indietro, finché non cedono contro il bordo del letto.

La mia schiena crolla sopra il materasso, ricoperto da schegge di legno. Sento il fiato tornare nei polmoni. Ma di nuovo, torno a non sentire niente.

No... Ora ho freddo. Tiro le coperte su di me e avverto una vibrazione sulla coscia. Raggiungo la fonte, è il mio telefono. Chris continua a chiamare, a inviare messaggi.

Chris...

Non lo voglio sentire. Non ho voglia di vedere nessuno! Prendo il telefono e lo butto via, scaraventandolo contro la parete. Forse l'ho rotto, perché ha smesso di vibrare.

Ma non m'importa. Non m'importa più niente.

Voglio essere lasciato solo, nel buio, tra queste lacrime insulse, tra questi spasmi, tra questi singhiozzi.

Voglio punirmi, crogiolarmi fino a sparire.

Sì... è questo che voglio... sparire.

È l'unica cosa che potrebbe salvarmi dall'inizio di questo orribile incubo. 

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