15 Bolgia quattro: Guarda avanti

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Guarda avanti, mi diceva sempre mio padre. Non c'era motivo per lui di guardare il passato, ormai le gesta compiute erano solo vaghi ricordi di polvere, che scomparivano con i pensieri annessi. Forse mi venne in mente solo perché ero quasi nella "tana" degli indovini, oppure era solo qualcosa che usavo per confortarmi. Messer Alighieri non era affatto tollerante verso quei falsi profeti. Passeggiare per la strada ed incontrarne uno significava appiccare un incendio, la faccia di mio padre si faceva di un colore molto simile al suo mantello rosso sangue.
Un'altra cosa che detestava, era vederli incoraggiare i passanti a "scoprire il loro futuro", sicuramente se non fosse stato per la mia presenza, mio padre li avrebbe insultati uno ad uno.
"Profani, ignobili calunniatori" mugugnava irritato. Sembrava facile mantenere la calma, in una Firenze apparentemente perfetta, ma l'Alighieri sapeva meglio di chiunque altro cosa nascondesse quell'"impero". Ipocrisia, corruzione, povertà e sciacallaggio. Il signor Durante era disgustato da tutto ciò, nonostante morisse dalla voglia di tornare in patria durante l'esilio.
"Ti mancava la città padre?"
Lui sorrise, e disse: "Mi è mancata di più la mia famiglia"
Mi ricordo che gli strinsi la mano, sapevo che era ferito nell'animo. Essere traditi da una parte di sé stessi doveva essere insopportabile.
"Fiorentia pagherà..." disse infine, ricambiando la stretta.
"Non solo lei" dissi tornando alla realtà. Dovevo essermi distratta per un secondo, dato che mi scontrai con un indovino con la testa girata. La mia prima reazione fu quella di chiedere scusa, ma la visione di quel dannato mi fece venire la pelle d'oca.
"Ti disgusto vero?" chiese l'anima. Non risposi, camminai nella direzione opposta per evitare di accendere discussioni inutili.
Se c'era una cosa che avevo imparato all'inferno, era evitare di parlare con i dannati; mi aveva fatto perdere tempo, troppo tempo. Purtroppo ero talmente sopraffatta dai miei pensieri per rendermi conto del terreno dissestato, infatti inciampai su una pietra. Sbattei la bocca a terra e mi ruppi il labbro, del sangue cominciò ad uscire, perciò cercai di tamponarlo con un pezzo di stoffa del mio mantello. Mi resi conto che un'anima mi stava osservando, aveva gli occhi fissi sul sangue. La sua bocca si contrasse in un lieve sorriso, e i suoi occhi divennero rossi. Non dissi nulla, ma non mi sentivo a disagio con il suo sguardo su di me, mi limitai a controllare le mie reazioni.
Ad un certo punto parlò: "vorrei tornare a sanguinare"
Abbassai lo sguardo e mi coprii la bocca con la manica. Niente conversazioni, nessuna confidenza. La mia mente era focalizzata sull'ultimo step dell'inferno: Lucifero. Avrei voluto avere la forza psicologica per affrontarlo, avrei voluto essere intrepida, ma ero forse troppo piccola, troppo immatura per immedesimarmi in un dolore immaginario. Le mie ginocchia bramavamo il terreno più di ogni altra cosa, le mie gambe volevano il contatto diretto con il fango e la sporcizia. Il mio corpo chiedeva la resa, voleva cedere esattamente come tutti i dannati che camminavano in cerchio. Io però non potevo lasciare che la mia debolezza avesse la meglio sul mio cervello.
Forse era una cosa abbastanza strana per me. Rendermi conto per la prima volta, di aver raggiunto il limite. Io volevo continuare, volevo andare avanti...GUARDARE AVANTI. Ma non potevo, la carne peccaminosa mi supplicava riposo. Mi sarei voluta flagellare, avrei voluto prendere una frusta e colpirmi per costringermi a camminare. Ma non ci riuscivo.
"Certo lo spirito è volenteroso, ma la carne è debole..." fu la frase che mi rimbombò in testa. Caddi, stesa a terra, ero come congelata. Non mi sentivo più i muscoli, la vista annebbiata mandava input alla testa come per ordinarle di spegnersi. Ero collassata, e ora mi davo la colpa, perché di chi altro poteva essere? Non sarei mai dovuta scendere all'inferno, forse se avessi concluso la terzina del sonetto non sarei finita in trance. Maledetta poesia! Chiusi gli occhi, le tenebre mi avvolsero per un secolo, o forse un secondo. Basta, finalmente, il meritato riposo.

"Non ti vogliamo femminuccia"
Avevo sentito bene? Femminuccia?
"Non puoi giocare ai guelfi e ghibellini con noi!"
Feci un'espressione imbronciata
"E perché non posso?"
"Le donne non vanno in guerra..."
"...è roba da maschi"
Respira Antonia, non lasciare che le emozioni abbiano la meglio.
"Io sono una donna e voglio giocare alla guerra va bene?"
"Sennò cosa farai?"
Non farlo Antonia, trattieni i lacrimoni da frignona.
"Aw, guardala, che fai ti metti a piangere?"
"Vai a ricamare con la mamma!"
Stava di nuovo accadendo, le lacrime scendevano e non si fermavano. Io non accennavo a calmarmi. Ma stavolta era diverso, sarebbe stata l'ultima volta. Fu questione di un attimo, presi la spada di legno appoggiata al muro e mi scaraventai sul bambino. Lui si difese e cercò di spingermi all'indietro. Cercai di non perdere l'equilibrio e cominciai a sferrare colpi in successione senza fermarmi. In quel momento, mi sentivo nella battaglia di Campaldino. Mio padre mi aveva raccontato tutto di quel giorno, di come ad un certo punto ebbe paura.
"Avevi paura di morire?"
"Sai piccola, quella era l'ultima cosa che temevo" disse lui sfoggiando uno dei suoi sorrisi irresistibili. Sgranai gli occhi e feci una smorfia confusa.
"Ma la morte è brutta..."
"Tesoro, certo che è brutta. Ma in quel momento avevo in mente l'obiettivo della battaglia. Cosa sarebbe successo se io non avessi difeso i miei ideali, cosa sarebbe successo se avessimo perso? Cosa ne sarebbe stato di Firenze, di te, della mamma e dei tuoi fratelli? Vi amavo troppo e vi amo tutt'ora, per lasciare che la paura mi impedisse di difendervi. In quel preciso istante il mio amore mi spinse ad ignorare la paura, ad ignorare l'incerto futuro. Se fossi morto, non lo sapevo. Eppure sapevo che se avessimo vinto, Firenze sarebbe stata un posto migliore e voi sareste stati salvi. Non mi importava di conoscere cosa mi riservasse il futuro, né cosa fosse successo in passato, l'importante per me era fare ciò che era giusto. E l'ho fatto, e abbiamo vinto! Ho vinto per te e per la nostra famiglia."
Lo abbracciai. Ora ero sicura che i suoi sforzi avevano un senso. Mia madre era stata in pensiero per tutto il tempo durante la sua assenza, non faceva che guardare fuori dalla finestra mentre aspettava il suo ritorno. La tensione a cena era pesante, l'unico rumore che si sentiva era il tintinnio dei cucchiai sulle scodelle. Io lo aspettavo. Era la prima volta che ero così in ansia per qualcosa, e vedere mia madre sorridere di nuovo era l'unica cosa che desideravo.

Questa non è una commedia. "Inferno"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora