6. Orologio

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«Fermo lì»

Quando una ragazza di sedici anni usa un tono simile nei confronti di un ragazzo, allora c'è da preoccuparsi.

Questo Alessandro lo sa bene perché si blocca immediatamente sul posto, come se stessimo giocando a "uno, due, tre, stella!" e mi fossi appena voltata.

La stanchezza impressa nei tratti non mi addolcisce, e mentre aspetto che i miei compagni escano dalla classe, rivolgo un breve cenno a Laura che passandoci accanto ci guarda interrogativa. Lei ricambia intuendo la mia volontà e quando finalmente l'aula si svuota mi volto completamente dalla sua parte e lo fisso cercando di mostrare un'autorità che non mi appartiene.

Alessandro gioca con il laccio della sua felpa continuando a fissare il banco, mentre muove una gamba su e giù nervosamente. I capelli arruffati e gli occhi cerchiati da occhiaie rispecchiano il suo turbamento, e nonostante sia comunque affascinante risulta completamente spento.

Rimango in silenzio aspettando che sia lui a cominciare sebbene sappia non ne ha intenzione, ma non mi alzerò da questa sedia fin quando non parlerà.

L'orologio affisso al muro intanto continua con il suo ticchettio e fa da sottofondo contando i secondi, che diventano minuti.

Non ho mai amato il silenzio, perché è proprio nel silenzio che la mente comincia a parlare e a fare troppo rumore; è nel silenzio che si creano le distanze e le incomprensioni, ed è sempre nel silenzio che ci si può perdere.

Le parole invece uniscono, sono chiare ed illustrative, e soprattutto hanno un peso.

Possono ferire, possono curare, possono anche far innamorare.

Il mio rifugio è proprio nelle lettere, che siano quelle di un libro, di una canzone o di una conversazione, per me sono fondamentali.

Ecco perché sono qui adesso, perché se non c'è dialogo non c'è comunicazione, e se Alessandro non parla con me o con qualunque altra persona, si porterà tutto dentro fino a scoppiare in mille parole che avranno un peso talmente grande da rischiare di far male ad altri, ma soprattutto a se stesso.

«Che c'è Amanda?» esclama dopo cinque minuti esasperato.

Adesso mi guarda dritto in faccia infastidito, si alza e comincia a girovagare per la classe senza però uscire.

Decido di imitarlo per poi sedermi sul banco su cui si è poggiato.

«Voglio sapere cosa succede»

Volta la testa in direzione della finestra che affaccia sul campo.

Da qui si vedono i nostri compagni chiacchierare e le risate dei ragazzi risuonano forti e chiare fra di noi.

«Ti sei mai sentita diversa?» chiede improvvisamente sempre fissando di fuori.

La sua domanda mi confonde, «Diversa da cosa?»

«Da tutti gli altri»

Poggio una mano sulla sua spalla per farlo voltare verso di me, riuscendoci.

«Sì Ale, sempre. E sai perché? Perché sono diversa da tutti gli altri, come lo sei anche tu. Tutti lo siamo»

Scuote il capo per poi sospirare.

Gli occhi azzurri sembrano viaggiare in altri posti a cui solo la sua mente ha accesso.

«Non mi riferivo a questo» sussurra.

«E allora a cosa?» chiedo cercando di comprendere.

«Mi riferisco alla vita degli altri. Sembrano tutte così perfette, certo con i loro problemi e delusioni, ma a loro modo soddisfacenti. Mi sembra che tutti sappiano perfettamente cosa stanno facendo, mentre io sono un buono a nulla»

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