Capitolo 44

17 0 0
                                    

CAPITOLO 44

Se potessi, spiegherei il meccanismo che si è innescato nel mio cervello.
Ma no, è davvero impossibile. Non lo capisco nemmeno io. Sul cuore verteva il peso di una massa insopportabile alla quale non saprei dare un nome. La sentivo fare pressione su di esso, come a volerlo spingere giù e metterlo a tacere per sempre. Il peso era così fastidioso, che mi sembrava di non riuscire a respirare, pensare, ragionare. Ero come uno smartphone al 3% indirizzato verso il 2%. Mi stavo per spegnere in un tempo limitato. Sentivo la parte centrale del mio organo vitale implodere. Avvertivo una bomba che stava per esplodere e ridurmi in mille pezzi. Non la solita mina di rabbia. Ma un uragano, una tempesta, un maremoto del più alto magnitudo messi assieme. Sentivo la saliva percorrermi la gola bruciante. Mi strozzai. Stavo per esplodere. Strinsi i denti, provai a trattenermi. Mi facevano male gli zigomi. Ero stanca di mettere da parte le mie vere emozioni per gli altri. Gli altri che fingono di voler sapere come stai, di volerti aiutare. Quanti messaggi ci sono dietro un "ci sei?", "ci prendiamo un caffè", "ti va una birra o una passeggiata assieme?". La gente non arrivava al fatto che non fossero semplici inviti o voglia di provarci. Erano vere e proprie richieste di aiuto. Era un modo per dire "mi sento davvero sola, ma non te lo dirò mai, sono troppo orgogliosa. Ma ti prego, stai con me". Non avrei mai ammesso la mia voglia di compagnia in alcuni momenti bui. Volevo che la gente ci fosse per piacere, non per pietà.
Ed effettivamente c'era una persona che mi stava volentieri accanto. Ma l'avevo appena mandata in ospedale. Questo mi aveva letteralmente sfregiato l'equilibrio emotivo, già più che traballante. Vedevo la gente vivere una vita socialmente normale, soddisfacente. Il problema ero io. Il mio modo di vivere e relazionarmi. Altrimenti non c'era altra spiegazione. Gli ostacoli vanno rimossi alla radice. Ed era ciò che stavo per fare, premendo quel grilletto.

JUSTIN

Bianche e delicate come petali di plumeria alba, le sue dita sottili sfioravano il palmo delle mie mani, che le stringeva tremante. Il mio cuore vibrava spaventato per ciò che i miei occhi avrebbero potuto vedere girando il mio viso verso destra. Immaginai che le foglie circondanti la ragazza che amavo, fossero diventate rosso sangue e che, dopo quel tonfo, il suo cuore avesse smesso di battere. Non avevo il coraggio di voltarmi. Il mio corpo sovrastava ancora il suo. Deglutii e mi feci forza, stringendo la sua mano che il mio palmo custodiva ancora. Mi girai. Aprii lentamente gli occhi. Non c'era sangue, eppure il suo capo era fisso sul prato, immobile, girato dal lato opposto rispetto alla mia faccia. Mi avvicinai piano piano al suo viso. Teneva le palpebre contratte. Aveva le guance bagnate dalle lacrime che cadevano come sottili cascate. Allungai il braccio e le sfiorai delicatamente una guancia, amareggiato.

-Mi dispiace, Cel...

-Zitto! Non voglio sentirti. Mi hai stancata. Perché mi hai fermata? Perché mi hai impedito di trovare finalmente la pace?

A stento riusciva a parlare. Capii che aveva un nodo in gola.

-Perché ti amo.

Si alzò di scatto e mi diede uno schiaffo forte e rumoroso.

-Tu non sai cosa significhi amare qualcuno! Basta! E ora uccidimi, se vuoi. Ti alzerò le mani ogni volta che ne avrò l'occasione!

Strinsi i denti. Mi sentii uno schifo. Non sapevo come spiegarglielo. Ma dovevo. Lei doveva sapere.

-Siediti. Devo parlarti- le dissi con calma.

-Non faccio ciò che mi dici, non sono ai tuoi ordini!

Mi alzai e le presi le mani con dolcezza.

-Ti prego, siediti. È importante. Devi sapere perché mi comporto così.

Life explosion.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora