Dopo tredici anni...

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"Signora, si rilassi. L'ispettore sarà qui a momenti" dice l'agente della polizia rivolto a Laura. Siamo venuti a cercare Alexander McDonald, il figlio di Nemesi che abbiamo scoperto essere ispettore di polizia qui sull'isola. I ragazzi sarebbero dovuti tornare da scuola due ore fa, solo che la scuola ha chiamato per avvertirci che oggi non si sono fatti vedere. Siamo preoccupati.
"Che succede qui?" chiede un uomo dai capelli rossi, avvicinandosi a noi.
"I signori cercavano lei, ispettore" risponde l'agente. Alexander ci rivolge un'occhiata confusa.
"Me ne occupo io, agente. Grazie".
Lo seguiamo fino al suo ufficio, dove ci fa accomodare.
"Perché ho il sospetto che non siate qui per invitarmi a cena da voi?" chiede, sedendosi dietro alla scrivania.
"Ci devi aiutare, Alex" dice Lau. "Si tratta dei ragazzi. Sono spariti".
L'uomo la guarda per un attimo, poi sposta lo sguardo su di me.
"Ve l'avevo detto" dice. "Discendono da uno dei tre Pezzi Grossi, era solo questione di tempo prima che capissero di non essere dei mortali. Dovevate darmi retta e raccontare tutto quanto".
Laura si nasconde il volto tra le mani, e io guardo il figlio di Nemesi. È il suo modo di fare, questo, ma mi fa davvero arrabbiare in questi casi.
"Non siamo qui per farci fare la predica, Alex" gli faccio notare. Lui annuisce.
"Lo so. Non denunceremo la scomparsa dei ragazzi, per il semplice fatto che non voglio complicare la vita a chiunque li possa incontrare e accompagnare al Campo. Mi metterò sulle loro tracce personalmente".
Mentre tira fuori dal cassetto della scrivania i proiettili metà in bronzo celeste e metà in metallo mortale, ripenso a ciò che ci ha raccontato anni fa. Alla fine della battaglia di Manhattan, dopo essere stato riconosciuto dalla madre, è scappato, ancora arrabbiato con gli dei, e si è rifugiato in Alaska.
"Grazie di cuore, Alexander. E che le Parche ti sorridano" dico.
Lui annuisce, poi fa un'espressione strana. Come se stesse per dire qualcosa che gli costa molta fatica. "Preghiamo gli dei che sia così, Marc".

Guardo Laura, sorridendo, mentre disegna. I suoi capelli neri, acconciati nel caschetto che tanto voleva suo padre, si muovono spinti dalla leggera brezza primaverile. Controllo ancora una volta, con un rapido conto mentale, la data. È il 5 marzo. Una settimana fa ho compiuto 31 anni, e tra un mese sarebbe il suo trentunesimo compleanno.
"Mamma" mi chiama la piccola, alzando verso di me gli occhioni nocciola così simili a quelli di Liam. "Ma la zia Laura quando torna? Voglio farle vedere i miei disegni!".
La guardo. Un anno e mezzo fa le ho parlato della zia Laura, le ho detto che è un'eroina che se n'è dovuta andare a vivere nuove avventure e che io non ho potuto seguirla anche se avrei voluto, e ho avuto un'idea: ogni due o tre mesi veniamo qui, su questa panchina di fronte a quella che avrebbe dovuto essere la porta di casa sua, e Lauretta disegna qualcosa che è successo da quando ha fatto l'ultimo disegno. Le ho detto che, quando Laura tornerà, le faremo vedere tutti i disegni, raccontandole cosa rappresentano, e ci faremo dire quali avventure ha vissuto.
Guardo il foglio, riconoscendomi rappresentata nel momento di soffiare sulle candeline. Ripenso al disegno risalente a circa un anno fa.
"Cos'è, vuoi ribadire che la mamma sta invecchiando?" ridacchio, iniziando a farle il solletico e facendola ridere.
"Ehi Iris!" esclama una voce da dietro di me. Mi volto.
"Ciao, Percy" saluto.
"Ciao zio Percy" saluta Laura, scendendo dalla panchina per farsi prendere in braccio. Il figlio di Poseidone la solleva senza sforzo, adombrandosi mentre la piccola si aggrappa al suo collo.
"Se non fosse per gli occhi, mi sembrerebbe di parlare con una versione in miniatura di Lau" dice. Io annuisco. A volte ho l'impressione che sia tutto sbagliato, mi sembra di essere tornata, adulta, a quando io e la figlia di Poseidone eravamo piccole.
"Già, ti capisco. Le assomiglia tanto, nel carattere. È affettuosa proprio come lo era lei" mormoro.
"Beh, l'hai cresciuta col mito della sua straordinaria zia. Mi sorprenderebbe se non fosse la sua copia spiccicata" replica lui, prendendo la bambina da sotto le ascelle e sollevandola. La piccola si mette a ridere, mentre a terra nasce uno strano fiore con i petali tutti di colori diversi che scompare quasi subito.
"Tuo padre?" chiedo. Ormai è una domanda di routine quando incontro Percy. Lui si stringe nelle spalle, mettendo a terra la bambina.
"Dice che è viva, ma credo che ormai voglia solo mantenere accesa la speranza, e che non lo sappia più manco lui" dice, fissando il vuoto. "Continua ad insistere. Secondo lui non dovremmo andare a cercarla, dovremmo fare come ci ha chiesto".
Sposta gli occhi verdi su di me, e io capisco che la sua speranza di rivedere Laura si è spenta quasi del tutto.

Mi guardo intorno, felice di essere finalmente in una città. Camminare in territori semideserti non era il massimo, con quei versi. Mike mi tira una manica della felpa, e mi indica la fermata degli autobus di fronte a noi.
"Possiamo muoverci con quelli" propone, guardandomi.
Rifletto su come dia, a volte, l'impressione di essere più piccolo di me, anche se siamo gemelli. È timido, schivo e pacifico, sono io quella scatenata sempre pronta ad infrangere le regole. Lui mi viene sempre dietro come se fosse il mio appiccicoso fratello minore.
Annuisco. "Mi sembra un'ottima idea. Raggiungeremo in fretta il Canada" dico, rabbrividendo. Anche una volta raggiunto il Canada, dovremo attraversarlo da nord a sud, spostandoci verso est per raggiungere la Grande Mela. Allungo il passo.
"Muoviamoci. Abbiamo molta strada da fare".
Saliamo sull'autobus, comprando i biglietti direttamente a bordo.
"Lucy... Non abbiamo considerato una possibilità" dice Mike, mentre ci sediamo.
"Cioè?" chiedo, guardandolo.
"Prendere un aereo" risponde lui. Rifletto rapidamente. Con un aereo potremmo passare anche da San Francisco, vedere se scopriamo qualcosa lì, e poi andare a New York. Mi viene male pensando a quanto possano costare non uno ma due voli, poi ricordo di avere sgraffignato un bel gruzzolo da dentro casa. D'altro canto, noi non abbiamo mai preso un aereo... Decido di non dimenticare l'idea di Mike, ma di tenerla da parte, almeno per il momento.

Sollevo una bolla d'acqua e la porto davanti alla finestra del bagno, giocando con la dracma. Ho bisogno di parlargli. Devo sentirmi dire che lei è viva, che sta bene, perchè non riesco più a convincermene da solo.
"Percy" mi saluta papà. "Che succede?".
Abbasso lo sguardo. Sono quasi tredici anni che non riesco a incrociare lo sguardo di mio padre e di mia figlia, perchè ho troppa paura di vedere mia sorella negli occhi verdi che condividono con lei.
"Papà..." combatto contro le lacrime. Non ne posso più, sono tredici anni che piango soltanto pensando a lei. "Dimmi che Laura è viva. Dammi delle vere informazioni. Non riesco più ad illudermi, la possibilità di averla persa per sempre mi sembra più reale che mai. So che tu sai più di quel che dai a vedere, quindi parla, ti prego".
Alzare gli occhi mi costa uno sforzo immenso. Lui ha distolto lo sguardo, fissa il vuoto. Capisco, perchè è successo anche a me, che sta avendo l'impressione di avere Laura, di nuovo diciottenne, di fronte.
"So cosa significa" mormoro, senza distogliere lo sguardo. Il dio dei mari si riscuote, e riporta l'attenzione su di me. "So cosa significa quando ti sembra di averla davanti, così come te la ricordi, felice e spensierata. E forse non è più così da tanto tempo, forse non lo sarà mai più, ma io mi rifiuto di abbandonarla. Perchè quando è arrivata la lettera, ho giurato sullo Stige che l'avrei riportata a casa. Ho giurato sullo Stige che avrei conosciuto i miei nipoti, e che avrei fatto sorridere Laura con un bacio sulla fronte, facendole dire che non è più una ragazzina. Credevo che tu, soprattutto tu, mi avresti capito. Credevo mi avresti aiutato. Ma sono tredici anni che gli unici a sapere che fine ha fatto Laura siete voi, e noi? Credi che a noi non manchi? Credi che possiamo sopportare tutto questo? Perchè se è così, non hai idea di quante volte sono stato sul punto di crollare, mollare tutto e scappare in Alaska. E tanti saluti ad Annabeth, Luke e Zoe. Voglio poterle dire che le voglio bene, perchè dal momento in cui è scomparsa dietro quella stramaledetta collina ho l'impressione di non averglielo detto abbastanza...".
Continuerei il mio sfogo, ma papà non è più dall'altra parte di un messaggio-Iride. Ora è qui, nel bagno della mia casa a Nuova Roma. Mi stringe a sè, come non faceva da troppo tempo. Senza Laura, i nostri rapporti si sono praticamente interrotti: ormai ci sentivamo praticamente solo per discutere se andare da lei oppure no. Papà mi prende per le spalle e mi guarda negli occhi. Capisco che gli costa tanta fatica quanta ne costa a me.
"Scusa" mormora. "Hai ragione, mi sono comportato in un modo pessimo. Sono stato insensibile e scorretto nei vostri confronti. È vero, io so dov'è Laura. Avrei dovuto dirtelo molto tempo fa, ma volevo rispettare i suoi desideri..." lo abbraccio, prima che continui a scusarsi. E' pur sempre un dio, deve mantenere un certo contegno... e poi, mi fa star male, perchè gli ho riversato addosso tredici anni di rabbia repressa. Se non l'avessi fatto, non si starebbe scusando. Non è colpa sua, e non è giusto che si scusi.
"Non importa, papà. Ora, però, dimmi dov'è".
"Piccola Diomede" risponde lui. "Un'isola nello stretto di Bering. Quel fenomeno è andata praticamente in Asia per allontanarsi dalla tentazione di tornare".
Gli sorrido, e una volta tanto dietro al mio sorriso non si nasconde la tristezza che mi ha accompagnato negli ultimi anni. Una volta tanto, sono davvero felice di sentirmi dire qualcosa.
"Mi sei mancato, papà" mormoro. Il dio mi stringe a sè.
"Anche tu, Percy".

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