Capitolo 5

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– Lei è Sara, è arrivata oggi –; un' eco lontano chilometri mi disturbò.
– È svenuta in stazione; la stiamo sottoponendo a diversi controlli, ma sono certo si sia trattato di un improvviso attacco di panico. Assicurati che venga sorvegliata spesso nel corso delle prossime cinque ore. La dimissione è prevista oggi stesso, se non ci sono complicazioni –.
– Va bene dottore –, disse una voce anch'essa ovattata.
Provai un leggero bruciore agli occhi, mentre uno spiraglio di luce si infiltrò sotto le palpebre; piano piano le aprii.
La prima cosa che vidi fu un mobile bianco di fronte a me. L'odore pungente che mi aggredì, mi diede la conferma di essermi svegliata. Mi sentivo pesante ed anche il minimo movimento risultava difficile, ero del tutto senza forze.
Lentamente ripresi coscienza.
I muscoli del mio corpo erano indolenziti, sembrava avessi perso la sensibilità. Non riuscivo a muovere le gambe, le mani serrate in un pugno, e i battiti del mio cuore li sentivo tremendamente lenti e pesanti.
Richiusi gli occhi a causa della luce troppo forte, poi li aprii di nuovo, notando, questa volta, le piccole sbarre bianche e basse ai piedi del letto; capii di essere in ospedale, anche se non sapevo come ci fossi finita.
I ricordi sono confusi; probabilmente, mi riaddormentati per un po'. Poi mi svegliai definitivamente e, con la memoria di nuovo lucida, presi a ripercorrere mentalmente quella mattinata sfiancante.
Più pensavo a ciò che era successo, maggiore era la confusione; c'era qualcosa di assurdo.
– Ho sentito parlare di un ragazzo che andava in bicicletta, ma non so da chi  –, dissi tra me e me.
– Poi quel ragazzo, finito sotto al treno; come è possibile? –, pensavo
Ora dopo ora, il ricordo dell'episodio vissuto al mattino divenne, lentamente, più nitido. Le tante immagini frammentate che aleggiavano nella mia testa si fissarono.
Incominciai a pensare che forse, il giovane rimasto vittima del terribile incidente al quale credevo di aver realmente assistito, fosse lo stesso di cui i ragazzi discutevano sarcasticamente.
– Mi è già successa una cosa simile, ma ora non ricordo quando. Forse è solo un sogno –, continuai.
I pensieri sfrecciavano nella mia mente che faceva fatica a seguirli, si accavallavano gli uni sugli altri; la testa iniziò a pulsare freneticamente e poi a farmi male.
Mi sentivo scoppiare.
– Ma che ho le visioni? –, mi interrogai in un sussurro impercettibile.

Trascorse qualche ora. Vedevo i dottori passare di fronte a me; i lembi dei loro camici, slacciati verso la fine, ondeggiavano a causa del loro camminare frettoloso. Di tanto in tanto, uno di loro si avvicinava e mi chiedeva come mi sentissi.
Mi dissero che, prima di lasciarmi andare, avrebbero parlato con mia madre, spiegandole la situazione.
Venni dimessa già quella sera.
Mia madre venne a prendermi, mi aspettò nella hall dell'ospedale; sembrava preoccupata. Appena mi vide mi abbracciò; poi fui investita dalla consueta raffica di parole: – Mi hai fatto stare in pena! Ma ora ti senti meglio, sì? –; e così via. Uscimmo dall'ospedale e salimmo in macchina; le frasi di mia madre continuavano a mitragliarmi, con un ritmo così serrato da non consentire alcuno spazio di risposta.
– Credevo avessi smesso di avere questi attacchi di panico –, aggiunse a un certo punto, in attesa che il semaforo diventasse verde.
– Potevi parlarmene; comunque, non ti ricordi nulla di quello che è successo stamattina? –, continuò, dal momento che continuavo a rimanere in silenzio. Sembrava non sentissi la sua voce da davvero troppo tempo e, come qualsiasi altro suono in quel momento, mi risultava fastidiosa.
– Sara, mi rispondi? –, disse di nuovo, stavolta alzando un po' il tono della voce.
– No, non mi ricordo, niente –, risposi tutto d'un fiato, con voce pesante.
Sorreggendosi la testa con la mano, sospirò e disse, lanciandomi un'occhiata perplessa dallo specchietto: – Ti sembrerà, ora, impossibile, ma vedrai che questo periodo passerà –.
In attesa che il periodo passasse, il mio cervello pareva avesse subito un blackout, annegava nella confusione più profonda e questo stato durò per giorni.
– Non è normale, non è scientificamente possibile che queste cose accadano –. Ero scettica riguardo a quello che mi stava succedendo, ed ero fermamente convinta dell'impossibilità di avere delle visioni, dal momento che la scienza stessa lo confermava; una parte di me ripensava però alle sensazioni che avevo percepito. E nemmeno sapevo dargli un nome a quelle sensazioni, o capire se erano reali, o se me le ero sognate. Le immagini dell'incidente invece no; quelle me le ricordavo bene. Quelle, in qualche modo, le avevo viste.
Mi faceva rabbia il fatto che, per quanto cercassi di negare e di accantonare questo pensiero, si radicava nella mia mente l'idea che qualcosa, a me sconosciuta, si era come impossessata del mio corpo ed io non potevo far nulla per liberarmene.
Alternavo momenti di rabbia furibonda ad attimi in cui mi credevo totalmente impazzita.
Mi terrorizzava l'idea di uscire di casa, anche solo per poche ore, per paura che potesse succedere nuovamente.
Le persone intorno a me credevano di potermi consolare ed incoraggiare.
“Dai Sara, vedrai che piano piano, passerà tutto”; “Può capitare che l'ansia faccia questi brutti scherzi, ma presto ti riprenderai”; “Sono fasi adolescenziali; ricordo che anche a me, alla tua età succedeva”. Mediamente era questo ciò che, nell'ultimo periodo, sentivo ripetermi ad esempio da mia madre, da alcune mie compagne di classe, dagli stessi dottori; tutti che si prendevano la briga di parlare, credendo di sapere.
Ecco, loro sono gialli, ad esempio.

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