EPILOGO

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TRE MESI DOPO

Dopo che me ne fui andato per sempre dal centro di recupero della periferia di Sendai, camminai senza meta per un tempo indefinito. Non so se fosse un modo per non pensare a ciò che mi ero lasciato alle spalle o a ciò che mi aspettava da quel momento in poi. Magari volevo solo godermi la mia ritrovata libertà. Alla fine, vedendo davanti a me una panchina vuota, decisi di fermarmi per fare una telefonata. Cercai il numero nella rubrica (finalmente mi avevano restituito il cellulare) e chiamai. Sentii il telefono squillare per un po', poi, mentre stavo per riattaccare, dall'altro capo mi giunse inconfondibile la voce trafelata di mia zia Ayano. Avevo pensato a lei da quanto Oikawa mi aveva chiesto che cosa avessi intenzione di fare dopo, e dopo un'attenta riflessione ero giunto alla conclusione che fosse l'unica persona che potesse darmi una mano. Ayano era la sorella minore di mia madre. Viveva a Tokyo, ma amava viaggiare, e non si era mai sposata; per questo, fin da quando ero piccolo, veniva spesso a trovare la mia famiglia: per lei ero poco meno di un figlio. La zia era già al corrente della mia situazione, ma logicamente mia madre non le aveva minimamente spiegato il motivo di tutta quella storia. Non ne rimase sorpresa, ad ogni modo. "Tua madre è sempre stata una donna di vedute ristrette" commentò a denti stretti. Non dovetti nemmeno chiederle nulla: subito mi chiese di dirle la mia esatta posizione così che mi potesse passare a prendere. Spiegò che si trovava già a Sendai per una commissione, e che dunque non le causava nessun problema raggiungermi. Durante il viaggio di quattro ore che separava Sendai da Tokyo, la ringraziai innumerevoli volte e le raccontai tutto quanto più nel dettaglio. Infine mi accolse nel suo appartamento, dove per un po', prima di andare a dormire, parlammo di ciò che avrei fatto. Mi chiese se avevo intenzione di frequentare un'università, e mi assicurò che nel caso avessi voluto avrebbe chiamato mia madre perché potesse farmi accedere ai risparmi che avevo accumulato per gli studi. La ringraziai nuovamente e promisi di prendere a breve una decisione sull'argomento. Feci molta fatica ad addormentarmi, un po' per l'eccitazione provocata da quella nuova situazione, un po' perché non riuscivo a smettere di pensare che, soltanto ventiquattro ore prima, le mie mani si trovavano intrecciate ai capelli di Oikawa.

Alla fine, grazie ad Ayano, tutto andò per il meglio. Per prima cosa mi aiutò a cercare un appartamento economico a Tokyo; ne trovai uno molto carino nel quartiere di Chiyoda, che mi piaceva perché si affacciava direttamente su un grande parco. Era un luogo spazioso, adatto a due persone, spiegò l'agente immobiliare, e così, nonostante per il momento fossi da solo e non avessi nessuno con cui dividere le spese, lo scelsi. Poi giunse il momento di trovarmi un lavoro part-time. Il primo che ottenni fu un posto da cameriere in un locale vicino alla mia nuova abitazione; la paga era buona, e mi trovai subito a mio agio con i nuovi colleghi. Più avanti venni assunto anche da una ditta che si occupava di traslochi, e per la quale lavoravo solo durante il pomeriggio.

Iniziò così a delinearsi una nuova routine; la mattina, studiavo. Ormai era troppo tardi per sperare di poter entrare in un'università qualunque, e per di più non sarebbe stato quello che volevo. Decisi di prendere un anno di "pausa", durante il quale studiare in vista degli esami di ammissione che, speravo, mi avrebbero permesso di studiare ciò avrei voluto. Il mio sogno era quello di entrare alla facoltà di scienze motorie; in questo modo, dopo la laurea, avrei potuto inseguire il mio vero obiettivo: diventare un allenatore professionista. L'idea mi era balenata in testa qualche mese prima, mentre ascoltavo Oikawa parlare di quello che avrebbe fatto una volta lasciato il centro.

"Voglio allenarmi, diventare più forte...così forse, un giorno, riuscirò ad entrare nella squadra nazionale. E quando giocherò la mia prima partita, tutti a Sendai la guarderanno in tv e mia madre e mio padre...capiranno quanto valgo davvero."

Quella volta avevo pensato ad una sola cosa: io non avrei avuto bisogno di guardarlo in televisione. Mi immaginavo già là, sugli spalti pieni di persone, impegnato a fare il tifo per lui. Ma poi, improvvisamente, un'altra immagine si era sovrapposta a quella. C'era ancora la palestra, vedevo ancora le gradinate gremite di gente, ma il punto di vista era cambiato: mi trovavo a bordo campo, e avevo un fischietto metallico al collo.

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