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Sono nato e cresciuto a Sendai, il capoluogo della prefettura di Miyagi. Ritengo di aver avuto un'infanzia felice, seguita da un'adolescenza uguale a quella di ogni altro ragazzo di quell'età. Avevo i miei amici, avevo la pallavolo, avevo una famiglia pronta a sostenere i miei sogni. Poi, dopo il diploma, la mia vita prese una piega diversa. Il primo ricordo di questa nuova esistenza è ancora vivido nella mia mente. Sono su un'automobile grigia, è la macchina di mia madre, e c'è lei al volante. Non ci parliamo. Ho la fronte appoggiata al finestrino, e diciannove anni ancora da compiere. Poi lo vedo, in lontananza, siamo nella periferia di Sendai. Il centro di recupero è un grande edifico di colore giallo mimosa, e al piano terra la porta principale è affiancata da enormi vetrate, in contrasto con le piccole finestre dei piani superiori. L'ingresso è costituito da una di quelle porte girevoli tutte di vetro, o forse plastica trasparente, non l'ho mai capito, una di quelle porte nelle quali le persone che vanno di fretta si incastrano puntualmente.

Quel giorno di metà marzo in cui arrivai al centro non andavo di fretta (e ci credo, nessuno fa i salti di gioia per entrare in una specie di manicomio!), tuttavia riuscii comunque, in qualche modo, a sbattere contro una delle vetrate mentre camminavo soprappensiero.

Ad ogni modo, quello che vidi una volta entrato non mi piacque per nulla. Le pareti erano tutte dipinte di azzurro, tipico colore da casa di cura, un azzurro che più che il cielo ricordava il colore dei fiocchi che si appendono alle porte quando nasce un figlio maschio. In una parola: quel posto era deprimente. L'ingresso era piuttosto ampio e oppostamente alla porta girevole si trovava una scrivania dietro la quale un'impiegata dagli occhi stanchi accoglieva vecchi e nuovi pazienti.

Del mio arrivo al centro ricordo molto poco: i suoni e le persone intorno a me mi scivolavano addosso come la pioggia su un impermeabile. Inconsciamente sentii mia madre parlare con la ragazza alla scrivania: le disse il mio nome, Iwaizumi Hajime, e la mia età, 18 anni, e le consegnò il mio documento. Dieci minuti dopo mia madre se ne era andata, ovviamente senza nemmeno salutarmi, ed io mi trovavo all'interno della mia nuova camera, situata al secondo piano dell'edificio. La stanza era molto semplice: sull'angolo destro si trovava un letto dall'aria scomoda, affiancato da un cubo grigio che doveva essere stato ideato come comodino e sul quale era posata un'anonima lampada, anche questa grigia. Sulla parete in fondo alla stanza c'era una finestra dalla quale entrava una quantità di luce minima, ma comunque superiore a quella che mi era aspettato, mentre dalla parte opposta rispetto al letto, sul lato sinistro, si trovava una scrivania in legno chiaro, un'altra lampada, questa volta bianca, un portapenne e un piccolo quaderno. Di fianco ad essa c'era infine un piccolo armadio. Le pareti, neanche a dirlo, erano azzurre.

La voce di una ragazza, alle mie spalle, iniziò a darmi qualche informazione generale riguardo al centro, ma mentre parlava non le prestai la minima attenzione, assorto nei miei pensieri mentre osservavo con noncuranza la mia immagine riflessa in un piccolo specchio al di sopra della scrivania. Su quella superficie lucente vedevo un viso spigoloso incorniciato da una folta chioma di capelli castani scurissimi, colore del mogano. Lo sguardo del ragazzo di fronte a me appariva stanco e indifferente e i suoi occhi verde salvia, un tempo brillanti come minerali di giada al sole, erano ora assenti e circondati da profonde occhiaie, segno delle notti passate sveglio ad osservare il soffitto di quella che tempo prima era stata la sua camera. Aspettai in silenzio che la ragazza finisse di parlare, e quando finalmente potei chiudere la porta alle mie spalle appoggiai alla parete il mio piccolo bagaglio e mi gettai sul letto. Era duro come il marmo.

La routine al centro era monotona: sveglia la mattina alle otto, pillola rossa, colazione, tempo libero, pillola verde, pranzo, tempo libero, pillola blu, cena, e infine a letto entro le dieci. Tutti i pasti erano serviti al piano terra, nella sala mensa oltre la reception; il bagno era comune e ce n'era uno in fondo ad ogni corridoio. Nel nostro tempo libero potevamo fare più o meno ogni cosa: il centro era dotato di giardino esterno, logicamente ben recintato, una sala musica, una sala disegno, una biblioteca con sala lettura e persino una piccola palestra. Potevamo anche starcene in pace nel nostre camere, ma i cellulari ci erano stati sequestrati al nostro arrivo, per cui non c'era gran che che potessimo effettivamente fare se non pensare guardando il soffitto, attività che tutto sommato non mi dispiaceva.

I giorni scorrevano lenti, e più il tempo passava più io mi sentivo come il relitto di una nave che riposa sott'acqua dimenticata da tutti. I suoni mi giungevano ovattati, non rivolgevo la parola ad anima viva, e ugualmente nessuno la rivolgeva a me. Iniziai a pensare di non essere in realtà un relitto abbandonato a sé stesso, ma la cassa del tesoro che si trova sottocoperta, una cassa di legno imbevuta d'acqua e chiusa da un enorme lucchetto di ferro. Questo ero: una cassa del tesoro, con il piccolo dettaglio che non contenevo assolutamente nulla.

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