Esodo

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È LA FINE RAGAZZI.
Siamo finalmente all'ultimo capitolo. È lunghissimo, lo so, ma non me la sono sentita di dividerlo in due parti... Volevo darvi modo di immedesimarvi il più possibile.
Buona lettura.
Spero vi piaccia.

***

Dormii per i successivi tre giorni.

Mi appisolai sulla macchina di Rìan, che Conneleugh aveva recuperato per noi, e non mi svegliai più per le successive ventiquattro ore.

Mi riscossi dal profondo sonno giusto per divorare due piatti di zuppa e tre porzioni di carne di agnello, poi crollai di nuovo in uno stato comatoso dal quale nemmeno una cannonata avrebbe potuto svegliarmi.

Non sognai assolutamente nulla, e ciò fu un immenso sollievo: per la prima volta in una settimana non vidi Lúg, e finalmente riuscii a sentirmi... quasi libera.

Nei pochi momenti di veglia, percepivo qualcuno parlare e cercare di intavolare una conversazione con me, ma la mia mente annebbiata riusciva a pensare soltanto al cibo e a tornare a ronfare il prima possibile.

Alla fine, però, uscii dal coma.

Rotolando fra le lenzuola come una mummia fra le sue bende, caddi giù dal letto e pestai il sedere per terra.

La botta servì per schiarirmi la mente e, sbattendo più volte le palpebre che sembravano essersi incollate ai miei occhi appannati, mi guardai intorno confusa.

Non riuscivo a riconoscere la stanza in cui mi trovavo e, per di più, mi sembrava quasi che il pavimento stesse... ondeggiando.

Mi misi carponi e poi mi alzai in piedi, incespicando come se fossi ubriaca e faticando a rimanere in equilibrio. Le giunture delle mie ginocchia scricchiolarono sonoramente ed io mi stiracchiai, sbadigliando senza contegno.

Strizzando gli occhi, mi resi conto che il letto dal quale ero appena caduta non era altro che una misera brandina incassata nel muro, e che la stanzetta dove mi trovavo non era più grande del bagno di casa mia.

Mi sembrava quasi di essere... in una cuccetta. Nella cuccetta di una nave, per la precisione.

Vi fu uno scossone, e il pavimento ondeggiò di nuovo.

Aggrottai la fronte: ero piuttosto sicura di essere veramente nella cuccetta di una nave.

Agguantai la maniglia della porta e misi il naso in corridoio, riconoscendo alla perfezione la moquette a pois del pavimento di un traghetto.

Sempre più confusa, mi avventurai fuori dalla mia stanzetta, per poi immobilizzarmi di colpo quando un acuto strillo terrorizzato mi perforò i timpani con l'intensità del fischietto di un arbitro.

«Ma che diavolo...?» borbottai, e la mia voce suonò incredibilmente rauca e secca.

Gli urli, che crescevano via via di intensità, provenivano proprio dalla stanza di fianco alla mia, così, senza pensarci troppo, spalancai la porta e infilai il naso nella camera incriminata.

Quando i miei occhi si abituarono all'improvvisa luce, mi resi conto che a strillare era stata Meaghan.

«Ci sono le fate, mi vogliono mangiare!» piagnucolava la bambina con vocetta acuta e spaventata, mentre mia madre le accarezzava i capelli per farla calmare.

«Era solo un brutto sogno, ora è tutto passato» rispose una voce dolce e calma e, strabuzzando gli occhi, mi resi conto che la voce apparteneva a Keira, mia sorella maggiore.

«Keira?» domandai incredula, aggrappandomi allo stipite della porta e fissandola con gli occhi sgranati.

«Sorellina!» esclamò lei e, con un sorriso luminoso sulle labbra rosse e carnose, corse verso di me per abbracciarmi.

Sangue di DiscendenteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora