16. Confronto

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Il tragitto fino a casa fu una confusa sequenza di fotogrammi.

Non sapeva se fosse per colpa dell'alcol, se fosse l'agitazione, il panico, ma gli sembrò di vedere il mondo muoversi al rallentatore attorno a sé ed al contempo troppo velocemente. Un istante prima stava andando verso la macchina di Jace, il momento seguente era davanti casa con Isabelle stretta al suo braccio. Non avrebbe saputo dire come ci fosse arrivato, né cosa fosse successo lungo la strada: sicuramente dovevano avergli chiesto qualcosa, ma l'unico suono che avesse riempito le sue orecchie era stato lo sciabordio del sangue che scorreva impetuoso nelle sue tempie, il martellante battito del suo cuore che si riverberava ovunque nel suo corpo, assordandolo.

Quando entrò in casa realizzò che Jace e Clary non erano con lui, che Isabelle lo guardava preoccupata mentre lo guidava verso il piano di sopra. Alec sentiva la gola chiusa, il mondo vorticare in brillanti macchie di colore attorno a sé. Era come se tutto fosse desaturato e grigio e d'improvviso esplosioni di luce ridessero brillantezza ad ogni cosa, nauseandolo. Ignorò la sua stanza gettandosi nel bagno per sedersi accanto al water, la schiena poggiata contro la vasca in cerca di un solido sostegno. Il viso era imperlato di sudore freddo, il suo cuore continuava a battere violento. Si sentiva perso e spaventato. La sensazione di stordimento dovuta all'alcol non aiutava affatto facendolo sentire ancora più agitato.

D'un tratto Isabelle si inginocchiò davanti a lui e gli afferrò il viso fra le mani.

Gli ci volle qualche secondo per mettere a fuoco il suo volto. Qualche altro per rendersi conto che stava parlando. La sua bocca si muoveva ma lui non sentiva.

Non sentiva niente.

Alexander.

La voce di Magnus rimbombava nella sua testa in un loop infinito.

Gli aveva sentito pronunciare il suo nome in molti modi diversi nel corso dei loro incontri, allegramente, ironicamente, seriamente, eppure tutto quello che riuscì a ricordare in quel momento fu come aveva mormorato quell'unica parola con tono sconfitto.

Per colpa sua.

Di nuovo.

La consapevolezza di averlo ferito ancora una volta gli fece venir voglia di piangere. Perché? Perché qualsiasi cosa facesse portava ad un unico risultato? Ci aveva provato, ci aveva provato davvero a proteggerlo. Gli era stato lontano, aveva ignorato il suo richiamo anche se era stata la cosa più difficile che avesse fatto negli ultimi anni, eppure in qualche modo era comunque riuscito a far comparire quell'espressione triste sul suo volto.

Un lamento sfuggì alle sue labbra mentre la sua espressione si fece sofferente.

Isabelle lo scosse con forza, afferrandolo per le spalle, portandolo a riscuotersi leggermente da quello stato di alienazione.

«Alec!» stava quasi bestemmiando, fra i denti, tentando di non alzare la voce. «Porca miseria, vuoi dirmi qualcosa?!»

Il ragazzo la sentì ora, per la prima volta, e mugugnò in segno di protesta all'ennesimo scossone. Ancora uno e probabilmente avrebbe finito col rovesciarle addosso tutto quello che aveva messo nello stomaco nell'ultima settimana.

«—vomito» riuscì a trovare la forza di dire portando istantaneamente la sorella a fermarsi e farglisi accanto, probabilmente per spostarsi dall'eventuale traiettoria.

«Là dentro, possibilmente» disse, infatti, avvolgendogli il braccio attorno alle spalle in un chiaro intento di volerlo aiutare a sistemarsi davanti al gabinetto. Il ragazzo però scosse il capo reclinandolo leggermente all'indietro, oltre il bordo della vasca, le lunghe gambe distese lungo il pavimento piastrellato della stanza.

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