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Uno, due, tre giorni... fino ad arrivare a due settimane: questo è il tempo che è passato da quella domenica. Sono state settimane di cambiamenti: da una parte il non vedere lui, dall'altra il rapporto con i miei genitori che è di gran lunga migliorato, da non credere. Nonostante questo che ha contribuito a farmi sentire meglio la delusione che mi ha dato non riesco ancora a processarla né tanto meno lui: è come se il mio sistema si rifiutasse di farlo. Ormai cerco di non nominarlo più, non so, forse per rabbia o forse perché solo a sentire il suo nome mi sale l'angoscia e la tristezza - sì, sarà per questo. Anche se non lo chiamo, non lo vedo, non lo nomino - e ho pregato anche mia madre di non sollevare l'argomento - inevitabilmente è nei pensieri, ovviamente. Ho cercato di distrarmi, ma ogni cosa che faccio, anche solo stare sul divano o dormire rannicchiata tra le lenzuola, mi ricorda lui, per non parlare poi di tutto ciò che di materiale mi è rimasto. La prima cosa che ho fatto il lunedì dopo è stata cercare una scatola. In casa non ce ne erano di vuote e quindi ne ho comprata una con mamma, una di quelle carine dai colori pastello con un coperchio che appena lo apro ti rivela un mondo a parte distaccato dalla realtà. Mi sarebbe servito uno scatolone enorme per tutto ciò che devo metterci dentro, ma mi sono accontentata di una scatola non troppo grande. Dentro ci ho messo i suoi vestiti, il libro di Shakespeare, il vestito e il cappello. Più difficoltoso è metterci dentro lo skate e Berry. Li ho messi perciò nel ripostiglio, lo skate nascosto dietro uno scaffale, Berry sotto un telo. Ma con Lily? Lei non posso nasconderla di certo, né tantomeno l'avrei abbandonata. Credevo che mamma e papà sarebbero stati contrari nel tenerla e invece si sono affezionati subito a lei. Ma non è bastato togliere di mezzo quella roba dalla mia vista. Sapevo dove li avevo messi ed ero in continuazione lì ad aprire la scatola, a provare i suoi vestiti e poi a rimettere tutto a posto promettendomi che sarebbe stata l'ultima volta, anche se sapevo che non era così. Piangevo nel guardarmi allo specchio con quella sua maglia, i suoi pantaloni troppo grandi e la sua felpa altrettanto e intanto mi stringevo così forte come se cercassi di trattenere a me qualcosa che sento che non è più mio: è lui.

Questa storia è continuata per qualche giorno, poi sono riuscita a smettere. Detta così sembra una dipendenza e forse in fondo lo è. Sono dipendente, o meglio attratta da qualsiasi cosa in lui: i suoi occhi, i suoi ricci, la sua voce, la sua pelle calda, il suo sguardo dolce e angelico, le sue braccia che avvolgendomi mi rassicurano. Lui è perfetto e sì, posso dire di aver stretto la perfezione tra le braccia. L'unica cosa che non riuscivo a cessare era il piangere in continuazione - un effetto collaterale del pensare: nella mia mente non faccio che rivedere lui e quella ragazza, sento le sue parole e vedo l'espressione del suo viso e riesco a percepire anche il suo menefreghismo nei confronti dei miei sentimenti - un vero stronzetto devo dire. Pensavo che dietro tutto quello che è successo per tutta l'estate dovesse pur significare qualcosa, pensavo di piacergli, almeno un pochino e invece no! Il mondo sembra sempre starmi contro e anche quando ho qualcosa fa sempre in modo tale da togliermela. In fondo siamo nati tutti per soffrire, chi più, chi meno.

Mamma per consolarmi in questi giorni mi ha portato a fare shopping e devo dire che aiuta molto, per un po'. È stata come una terapia che momentaneamente funziona, ma una volta terminata si ha una ricaduta della stessa malattia.

Nella scatola manca una cosa: i barattoli di marmellata. Visto che sarebbero andati sprecati lì dentro, ho deciso di fare delle crostatine con queste e per poi darle ai vicini. Voglio sbarazzarmi di tutti i barattoli, ma sono sicura che mamma ha nascosto qualche barattolo. Non è totalmente d'accordo con quello che ho deciso ed è sicura che potrei pentirmene.

«Sei sicura di tutto ciò che stai facendo, Emma?»

«Perché me lo chiedi, mamma?»

«Potresti pentirtene.»

«Non credo» dico mentre controllo la cottura delle crostate e intanto sistemo la cucina.

«Beh, dicono tutti così.»

«Io dico così perché è davvero così.»

«Ma non pensi che un giorno potresti rimpiangere tutto ciò.»

«Potrei. O potrebbe lui.»

«Ma qui parliamo di te.»

«Ma c'entra anche lui. Di certo non lo farei se non fosse per quel motivo.»

E penso per un momento a quella ragazza che lo accarezzava e lo baciava, e alla mia delusione, ma scuoto la testa, come se questo riesca a far volatilizzare quel pensiero, che alla fine tornerà di nuovo a svolazzare.

«Capisco la tua delusione.»

«Già. Forse in minima parte sì, ma non totalmente. Non so se ti sei mai trovata in questa situazione.»

«No, infatti. Ma potrei. D'altronde non conosco neanche bene tutto.»

«Credo che per recuperare tutto ciò che è successo fino a quel momento ce ne vuole un po', ma visto che sto cercando di eliminare qualsiasi cosa sarebbe meglio non parlarne.»

«Va bene.»

«Grazie.» le dico e l'abbraccio. Finalmente mi sento bene. I rancori nei suoi confronti e nei confronti di papà sono finalmente spariti.

«Emma, credo che le tue crostatine siano cotte.»

È vero: un odore delizioso di more e lamponi si leva dal forno e mi travolge appena lo apro ero tirare fuori i dolci inebriando l'aria circostante.

«Non appena si saranno raffreddate un po' le porterò ai vicini. Intanto vado a giocare con Lily.»

È piacevole essere in giardino alle cinque del pomeriggio: l'aria non è poi così afosa come inizio agosto, d'altronde è arrivato quasi settembre - domani è il primo settembre, e i raggi del sole sono piacevoli sulla pelle. Domani è il mio compleanno, a breve ricomincerà la scuola e settembre è decisamente un mese perfetto per ricominciare.
Mi siedo sull'erba e subito Lily corre verso di me per farsi accarezzare e coccolare. Assaporo l'ultimo giorno da quindicenne, come se fosse speciale, e domani, compiendo sedici, qualcosa possa cambiare nettamente, anche se so che non è così, ma crederlo è divertente. Ad un certo punto sento il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloncini: è un SMS.

Mi manchi.

Rabbrividisco.

Ho bisogno di vederti.

Sento gli occhi riempirsi di lacrime, ma non di tristezza, di rabbia. Mamma nota ciò e mi chiede cosa non andasse in me. Le dico che è lui, che dopo due settimane è tornato. Con quanta sfacciataggine mi dice che gli manco. Sa che se gli manco è tutta colpa sua. Intanto il cellulare vibra di nuovo.

Vediamoci domani pomeriggio alle 3 alla panchina.

Voglio solo parlarti.

Non rispondo, mi rifiuto categoricamente di farlo. Lo ha voluto lui.

«Te ne pentirai.»

«Non succederà.»

«Non essere troppo orgogliosa. So che sei arrabbiata con lui, ma fidati se ora segui il tuo orgoglio invece che il tuo cuore potresti fare un errore madornale.»

«Poteva pensarci bene lui! Che mi abbia rifiutato anche lui per orgoglio e ora ne paghi pure le conseguenze! Si è comportato da scemo, da cretino. Questo mi fa arrabbiare. Sono stata male e tu lo sai, mamma. Ora lui non può tornare come se nulla è successo e dirmi mi manchi come se questo possa ripagare quello che ho passato due settimane e possa dimenticare tutto. 

«No, non riesco. Non ora. Vado a portare le crostatine ai vicini.» Mi alzo con Lily che mi guarda con un musetto interrogativo. 

«Le passerà» sento dire da mia madre, mentre vado via.

È proprio vero, però, l'orgoglio non porta da nessuna parte.

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