Matamoros

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«nel vedere quest'uomo che muore
Madre,
io provo dolore.»


L'occhio brucava lo schermo, studiava i particolari: la cravatta divelta, un bottone mancante, l'asola vuota. Rosa e spumoso, un rivolo di schiuma ai lati della bocca.

Maschio, asiatico, trent'anni.

«Frocio.»

Min sedeva scomposto, il culo secco tra le scartoffie, sulla scrivania. Fumava come una ciminiera, gli occhi iniettati di costernazione. «È il terzo in sei mesi. Stessa zona, stesse percosse.»

Bong non rispose. Si limitò a zoomare ancora, ingigantì un minuscolo frammento di vetro; sembrava stesse cercando qualcosa. In realtà, voleva solo scostarsi dal sangue. Dalla poltiglia dell'occhio, dal sopracciglio raggrumato, dai denti come esplosi. Il contenuto della testa si era rovesciato sul marciapiede, la vita di quel ragazzo rigurgitata in un tombino.

«Il terzo» sillabò, atono. «E gli altri?»

Nella penombra dell'ufficio ormai deserto, Min sputò il fumo. «Vivi, per così dire. Nessuna informazione utile. Per quel poco che sappiamo, però, l'aggressore potrebbe non essere lo stesso.» Guardò alle ghirlande che decoravano il soffitto, alle poltrone girevoli addormentate. La radio gracchiava un jingle, i computer s'impolveravano, spenti. Dopotutto, era Natale anche per loro. Min salutò Kwon, il suo collega staccava per le feste, tanti auguri anche in famiglia. «Andiamo, Bong. Non possiamo fare niente, adesso, per lui.»

Ma Bong si fece piccato, cacciò fuori lo sdegno che gl'inzuppava la lingua. «Quindi, adesso che un povero stronzo è morto vengono a romperci i coglioni» sentenziò, livido. Aprì altre foto con irruenza, col desiderio di far decollare la tastiera, l'ufficio intero. Nello scatto clinico della scientifica riconobbe l'incrocio, da quel dedalo di strade si diramava Itaewon. Ci aveva mangiato tteokbokki, al chiosco più avanti, solo due giorni prima.

Min sospirò, ogni volta la stessa storia. Nel rapporto l'aveva annotato, impulsivo, implosivo; gli aveva procurato una nota di demerito, Bong l'aveva evitato per una settimana. Ma l'aveva fatto per lui, per il suo bene. Min si concentrò sul suo partner, guardò dritto nei suoi occhi cisposi. Era un bel ragazzo, Bong, di quelli alti e forti che piacciono alle madri, che rassicurano i padri, ma il suo cuore era mezzo scassato. Era anche un ottimo agente, intuitivo e volenteroso, ma albergava in lui un senso di giustizia a cui avrebbe fatto meglio a rinunciare, prima o poi. A farsi male, dopotutto, bastava poco - pochissimo.

«Siamo della omicidi, Bong. Chi diavolo avrebbero dovuto interpellare, la fottuta fatina dei denti?»

«E per gli altri cosa hanno fatto?» raspò il più giovane, le narici allargate dall'indisponenza.

«Per gli altri froci? Niente.» Min si guardò le ginocchia, imbarazzato dalla pochezza di certi loro collaboratori. «Denuncia a ignoti» spiegò. «Hanno pattugliato la zona per due settimane, poi basta. Qualcuno dai piani alti ha insinuato che la comunità gay di Itaewon volesse attenzioni, un certo grado di riconoscimento. Con le volanti appostate per strada, le aggressioni si sono interrotte. Hanno pensato che andasse tutto bene, ma adesso questo è morto.»

Bong tornò a fissare lo schermo. Questo giaceva scomposto sull'asfalto, dalla perizia risultava che avesse sbattuto al lampione.

«Gli hanno rotto la testa come un uovo.»

«Cristo, Bong, falla finita. Mi fai venire da vomitare.»

«Com'è che si chiamava?»

Min fece spallucce, si passò una mano tra i capelli radi. Era più vecchio di Bong di qualche anno, ma le strade avevano divorato la sua scarsa avvenenza senza fare complimenti.

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