Questo giorno che incombe

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La telefonata arrivò al mattino presto.

Namjoon sussultò per lo squillo, inciampò nelle lenzuola, ringhiò per schiarire la voce. «Pronto?»

Nella cornetta una voce sconosciuta, chirurgica. «Signor Kim?»

Riconobbe quel tono, le parole scandite con eccessiva premura: le aveva già sentite; lo avevano trovato da ragazzo e adesso tornavano a incassare il resto.
Rispose a vuoto, il corpo lo tradì, non emise un suono. Dovette riprovarci, reggersi alla sveglia, le cinque del mattino. «Sono io.»

«Signor Kim» incalzò la voce, «la prego di raggiungerci in ospedale.» Silenzio. «Si tratta di suo fratello.»

Fu un'esplosione ferma. Un lungo vuoto pieno di detriti.

«Mio... fratello.»

Sveglio, dall'altra parte della casa, Jin aveva sentito. In pigiama aveva guadagnato la porta, le chiavi dell'auto strette in mano.

Prima di uscire, prima di immergersi nella notte che andava morendo, i due fratelli si guardarono, negli occhi una sola certezza, quella che per anni avevano combattuto: il giorno era arrivato.

*

Il reparto di terapia intensiva non era cambiato. Era rimasto, intonso, ad aspettarlo. Namjoon studiò le fragole oltre il vetro, composte e timide nel piccolo pozzo luce; non erano cresciute. Erano rimaste, immobili, ad aspettarlo. Forse erano morte, il piscio di Taehyung le aveva uccise, o forse erano sopravvissute, minuscole e gialle, per assistere a quel giorno. Quel giorno. Forse ridevano di loro, delle loro sciagure, la potente famiglia Kim piegata in due dal dolore. Avrebbe dovuto espiantarle, farle buttare in discarica. Non le avrebbe volute vicino, la prossima volta. La prossima volta. Studiò Jin che girava su se stesso, Jin che guardava oltre il vetro e mormorava «le odio, quelle cazzo di fragole». Sì, le avrebbe fatte espiantare.

Attesero com'erano abituati a fare. Di tanto in tanto un pianto composto turbava la quiete - interferenze, suoni lontani, stroncati sul nascere. Di tanto in tanto uno sferragliare di ruote, barelle lanciate in una corsa muta.

Namjoon si guardò le mani: erano quelle di sempre, palmi larghi e dita lunghe, grandi mani da uomo. Eppure si sentiva rimpicciolire. Studiò i mocassini di pelle italiana, i piedi al loro interno sempre più piccoli, prugne rinsecchite in una ciotola; pure i pantaloni gli stavano larghi, tre taglie più grandi, anzi quattro, anzi cinque, erano pantaloni da uomo e lui era soltanto un ragazzino, ehi papà oggi pomeriggio potremmo andare al centro commerciale a prendermi dei nuovi vestiti, alla mamma non piace vedermi così.
Così come, Namjoon, diceva suo padre studiando il soffitto, e a Namjoon sembrava che suo padre cercasse Dio, invece stava solo prendendo le misure.

«Signori Kim.» Un'infermiera bianca come il pane si materializzò davanti a loro. Namjoon scattò in piedi. I pantaloni gli stavano giusti, le scarpe facevano il solito, vecchio rumore. Squittivano, quelle scarpe maledette. Le avrebbe buttate.

«Il dottore vi raggiungerà immediatamente» disse la donna, e Namjoon si domandò a quale infelice spettacolo i suoi occhi stessero assistendo: due giovani ricchi e potenti con addosso il pigiama, i capelli schiacciati, in bocca l'odore del sonno. Serrò i pugni; meritava di sparire pure lei.

Avanzarono lungo il corridoio. Immerso in un bianco doloroso, Namjoon non avrebbe fatto domande; non avrebbe chiesto se suo fratello era vivo, non glielo avrebbero detto, e lui non avrebbe percorso la distanza tra loro con quell'amo piantato in bocca. Non avrebbe mostrato dolore né fiducia, un cazzo di niente ma poi, tornato a casa, quelle cazzo di fragole le avrebbe fatte espiantare.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Nov 12, 2023 ⏰

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