3 ~ Pettegoli all'aroma di caffè

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Dapprima udimmo il tonfo. Lo schianto. E tante persone schizzare tutte verso lo stesso punto. Io per primo, ovviamente: giù dal banco e fermo di colpo sulla soglia d'ingresso del bar.

Individuai subito cosa aveva attirato l'attenzione di tutti.

L'ennesimo incidente.

Alzai gli occhi al cielo mentre una tizia veniva fuori dall'automobile, tamponata da un camion, reggendosi la parte posteriore del collo, e cacciando fuori un urlo a comando.

-Ma che cosa è successo?-

-Niente, signor Maniscalco, il solito incidente-

-E si sono fatti male?-

-Boh. Tutti vivi. A parte quella che urla per un probabile Colpo della strega- e sollevai un sopracciglio con scetticismo.

Il signor Maniscalco scosse la testa, senza mai smettere di reggersi il mento con una mano, tornando subito a guardare oltre la vetrina che dava sull'incrocio. -Commedia, sicuro. Ma poi non lo sanno che qui ci sta un incrocio?-

-Rallentare all'incrocio: è quel genere di cose che tutti quelli che passano da qui hanno dimenticato di studiare a Scuola guida-

-Mi ci devo mettere io, là davanti, con un cartello con scritto "rallentare"- intervenne Romina, mentre serviva il caffè al nostro cliente.

-E adesso che fanno? Perché suonano?- chiese il signor Maniscalco.

E io mi strinsi nelle spalle, tornando dietro il banco, lasciando spazio a Fausto, pronto a intrattenerlo. -Ma che vuole che fanno! Hanno bloccato tutta la strada, per questo suonano-

-Sciagurati e maleducati. Non hanno pazienza. Ai miei tempi ci stava...-

E avevo già smesso di ascoltarlo. Per fortuna, in quei casi, c'era Fausto. Era lui che intratteneva i clienti. Era solito sedere sulla poltrona in vetrina, un angolo strategico da cui aveva visuale di tutta la sala, vicino a tutti i tavolini, e con gli occhi puntati verso il bar e l'ingresso. E stava pure comodo, in poltrona. Da lì, da quel punto, si dava a chiacchiere frivole un po' con tutti, spaziando da un argomento all'altro con una tale nonchalance da risultare quasi ipnotico.

Io ero diverso da lui. Ero abituato a pensare, a darmi a monologhi su monologhi nella mia mente perché, troppo spesso, dall'altra parte, avevo avuto a che fare con gente a cui piaceva troppo parlare e per nulla ascoltare. E non ho mai avuto abbastanza carattere da impormi all'interno di una discussione: solitamente, mi adeguavo, lasciavo correre, ascoltavo. Mi ero abituato a tacere.

Sorridevo. Spesso mi perdevo nei miei stessi pensieri. Il punto era che non ero davvero "abituato" a parlare. Ero bravo a farlo scrivendo, pensando. Se usavo la voce iniziavo a balbettare, spesso sbagliavo i tempi di risposta. Mi emozionavo. Proprio come se stessi vivendo all'interno di un'allucinazione fantastica.

Ricordo pure il periodo in cui presi a tacere. Con amici, parenti, conoscenti. Soprattutto quando, a cominciare proprio dagli amici, iniziai a rendermi conto di essere un tipo noioso. Ricordo la faccia di una mia – forse non più – amica che mi fissava impassibile, mentre magari le raccontavo le emozioni incredibili che mi aveva suscitato una determinata cosa e lei... lei restava impassibile. Disinteressata. Finché il mio entusiasmo si smorzava, le parole si spegnevano nella mente e dalla bocca non usciva più niente.

Non riuscivo più a rendere mente e bocca due parti dello stesso insieme armonico. Pensavo e non riuscivo a parlare. Parlavo senza pensare. Sparavo, inevitabilmente, stronzate di cui spesso, dopo, mi vergognavo o mi pentivo di aver detto.

Nell'incertezza, nonostante il mio sempre più pressante desiderio di "fare parte del gruppo", preferivo tacere e lasciare spazio agli altri.

Mi voltai un istante verso la strada, mentre un cliente faceva il suo ingresso nel bar.

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