8 ~ Scelte

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Stare da solo era stata una mia scelta.

O, almeno, questo mi ripetevo, come un mantra, nei momenti in cui, stare da solo diventava pesante.

Proprio come quella domenica. Disteso a letto, intento a cazzeggiare con il cellulare, ignorando tutto e tutti, con nessuna voglia di rispondere a nessuno, di fare alcunché.

Essere solo era pesante.

Eppure, c'erano volte – come quella – in cui mi sentivo incastrato in un loop dal quale non riuscivo ad uscire neppure volendolo.

Scelte.

La vita è fatta di scelte.
Volute, incoscie, obbligate.

Stare da solo la percepivo, da sempre, come una scelta obbligata, non di certo voluta. Una conseguenza, a cui mi ero dovuto adattare. Conseguenza di un passato, di altre scelte, di situazioni che mi avevano condotto a determinate strade. Strade tortuose, grigie e buie, ma che, alla fine, mi ero fatto andare bene, le avevo rese mie.

Scelte.

Ne avevo parlato di recente con le mie amiche, delle scelte. E un pochetto mi ero pure sentito in colpa nell'affrontare la discussione, perché era vero: quello che ero, il punto in cui ero arrivato nella mia vita, erano tutte cose frutto di mie scelte – e non aveva importanza se alcune le avevo sentite obbligate.

Avrei potuto lottare per non restare solo. Invece mi ero rassegnato, perché lottare, cercare di cambiare le cose era stato doloroso e dopo i primi tentativi avevo preferito adattarmi.

Non ero davvero solo: avevo la mia famiglia, le mie amiche, i miei cani.

Eppure, troppo spesso mi sentivo solo. Una solitudine altra, vecchia di anni, piantata nel petto, nella mente sottoforma di ricordi e traumi. Era una solitudine che forse non apparteneva neppure più al mio presente, ma che mi pesava sulle spalle come un macigno, guastava i momenti di gioia, poneva dubbi e toglieva fiducia. Come se ogni istante pieno che vivevo fosse, in realtà, un'illusione che mi ero costruito.

Esattamente come accadeva in passato.
Al liceo non mi sarei mai sognato di restare solo. Ero stato un ragazzino normale, con impulsi normali.

Ma cosa rende alcune cose normali e altre no?
Scelte, ancora una volta: scegliere di reputare alcune cose normali e altre no.

E avevo sbagliato, suppongo.

Mi tirai a sedere sul letto, e solo in quel momento mi resi conto del peso canino che gravava su una mia gamba: Ombretta. Dopotutto, c'era un valido motivo per cui Ombretta era il suo nome – e c'entrava poco il colore del suo manto, anche se era nero. Era la mia ombra, la mia cozza ed io il suo scoglio. Un imprinting ci aveva legato fin dal nostro primo incontro. Leggevo ovunque cose come: "Non bisogna umanizzare i cani" – che cazzo significava, poi, non l'ho mai capito per davvero.
Non l'ho mai voluto capire – scelte.

Ombretta era la mia bambina, un pezzo di me, e sapevo già che nessun altro avrebbe mai potuto prendere il suo posto. Amavo pure Orso, ma era un amore diverso, lo ammetto. Tentai di districarmi dal peso dei suoi venticinque chili, con scarsi risultati.

Il cellulare vibrò, annunciando l'arrivo di un messaggio. Ancora e ancora.
Aggrottai la fronte e recuperai l'apparecchio.
Romina mi aveva mandato una decina di messaggi:

– Fa l'infermiere

– Lavora spesso in ambulanza

– Conosce il dottor Fabrizio

– È venuto a fare colazione con Alessio delle Analisi

– Indovina chi è!

– Ha quarantadue anni

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