7 ~ Io e il Bar

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Ero da solo al bar.

Solitudine equivaleva a dire più noia, più pensieri e, paradossalmente, meno cose da fare.

Se stavo da solo al bar significava che era arrivato il weekend, la gente mollava la città, partiva per il mare, per le prime vacanze di luglio. Per strada si poteva persino credere di vedere rotolare una balla di fieno tra il silenzio pesante di una città abbandonata.

Io e il Bar.

Non una persona per strada, sporadiche automobili. Nessun clacson e nessun incidente all'incrocio.

Grandioso.

A Romina sarebbe toccata la domenica successiva, io avevo vinto il sabato. Da solo perché Fausto era sparito per aiutare uno dei suoi fratelli e non sarebbe neppure tornato a chiusura – chiusura che avrei dovuto fare io.

E quindi non potevo scappare.

Friggevo, avevo le smanie. Pensavo di continuo di prendermi l'ennesima pausa, ma, invece di fumare l'ennesima sigaretta, mi sarebbe piaciuto accomodarmi in poltrona e scrivere. Era un po' che non avevo più avuto tempo neppure per scrivere. Mi sentivo pieno di parole in procinto di traboccare dalla mente direttamente all'esterno, senza neanche passare dalla bocca.

Ero pronto ad esplodere.

E ogni tanto esplodevo pure: perlopiù in battutacce, frecciatine; frasi di cui mi pentivo nel giro di un battito di ciglia.

Non scrivere equivaleva ad alimentare il disagio, incastrare i sentimenti, soffocarli; rischiare di farli imputridire al buio, nel marasma di pensieri costretti al silenzio.

Avevo bisogno di scrivere per essere me stesso, per essere sereno.

Scrivere era la mia dose di tranquillanti omeopatici e senza nessunissima controindicazione.

Certo, c'erano state delle controindicazioni, in passato.

Come perdere degli amici. Amici che non comprendevano il mio bisogno di stare bene e che non accettavano che potessi stare bene solo scrivendo.

Avevo un'amica, invece, in quel periodo, che riusciva persino a comprendere la quantità di casini che affollavano le mie giornate solo guardando a quanto avevo scritto nell'ultimo periodo. Le bastava sbirciare i documenti condivisi nella cartella di Drive e subito partiva il messaggio: "Come stai? Che cosa succede?"

Era quello che mi aveva aiutato a comprendere la differenza tra amici e Amici. Perché gli Amici non ti fanno mai pesare quelli che sono i tuoi bisogni, le tue necessità – anche se per loro possono pure risultare bisogni e necessità incomprensibili.

Purtroppo, sapevo che non mi sarei sentito a mio agio nel confinarmi in poltrona a scrivere, sapevo che lo avrei fatto accompagnato da un'ansia constante – seppure sapessi che Fausto, anche quando mi avesse sorpreso ad "oziare" guardandomi dalle telecamere, non avrebbe avuto nulla da ridire sul mio operato. Sapeva che scrivevo, e poi non era mai stato quel genere di capo che pretendeva che i suoi dipendenti fossero dei "soldatini".

Ero libero, al bar, libero di ritagliarmi i miei spazi – quando non c'erano clienti –, ma, soprattutto, ero libero di essere me stesso: di recarmi al lavoro, magari, truccato, oppure con una maglietta antidiluvianamente considerata femminile.

Ero io che, come al solito, mi ponevo miliardi di fisime e limiti.

Avevo già pulito ogni superficie pulibile, servito gli sporadici clienti che si erano presentati. Pranzato, fumato, oziato, pulito. Ed era ancora presto.

Sospirai, entrò l'ennesimo cliente di passaggio, da un caffè al volo – proprio il motivo per cui non riuscivo a rilassarmi, a pensare seriamente di mettermi in poltrona e scrivere.

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