19 ~ Il mondo reale è una merda

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Avevo rimuginato sulle parole di Stefano anche troppo.
Per tutto il resto del pomeriggio in spiaggia, durante il rientro in treno.
Persino mentre mi lasciavo catturare da Vale in un abbraccio strappalacrime.
A cena, con i miei; durante la notte, con Ombretta che ringhiava nel sonno, poi piagnucolava e io che cercavo di calmarla, mentre tenevo gli occhi sbarrati nell'oscurità, la mente piena di pensieri.

Non avevo scritto proprio perché avevo avuto paura di tirare fuori troppe cose che non ero ancora pronto ad affrontare.

Avevo rimuginato sulle sue parole pure nei giorni successivi, finché non ero rientrato al lavoro, con il terrore di incontrarlo ancora e di dovermi confrontare con lui.

E tutto quello perché non ero stato in grado di dargli una risposta al momento giusto.

Mi spaventava, quella risposta.

Ero persino arrivato alla conclusione che Stefano fosse un po' come me: ferito da troppi rifiuti, disilluso, annichilito. Stronzo per necessità. Anche se, personalmente, non ero mai stato testimone di questa sua fantomatica stronzaggine.

-Vai a prendere il pollo- disse Fausto e interruppe i miei pensieri con un rumoroso crack. Sospirai e scesi dal banco. -Cos'è quella faccia?-

-Quale faccia?-

Fausto aggrottò la fronte e mise le mani nelle tasche dei pantaloni, dandomi le spalle. Raccolsi i soldi che mi aveva lasciato vicino alla cassa e uscii dal bar.

Detestavo uscire per sbrigare commissioni, di solito – soprattutto quando si trattava di fare dei favori a Fausto, tipo andare a comprargli roba per casa sua – ma poi c'erano giorni come quello, invece, che agognavo i momenti in cui mi avrebbe mandato chissà dove. Mi accesi una sigaretta.

L'unica pecca restava il caldo. Camicia, gilet – perché con settembre era tornata la divisa – e caldo. Ogni tanto mi facevo cogliere ancora dalle mie fisime sul sudore, ma era una cosa di cui non mi potevo lamentare per davvero. Eravamo amici, io e Fausto? Forse, ma restava il mio capo e a lui toccavano decisioni come quella. Faceva parte di quelle piccole cose che urtavano un po' la mia psiche, il mio precario equilibrio. Probabilmente perché di fondo conservavo dei vuoti dove, cose come quella – stupidaggini – riuscivano ad attaccarsi – e a trasformarsi in drammi. Forse era proprio per quello che non mi fidavo del tutto di Fausto: non mi capiva e sapevo pure che non c'era davvero bisogno che mi capisse, perché era il mio capo.

Scossi la testa e attraversai la strada individuando dall'altra parte del marciapiede Mario. -Claudio!- urlò l'omone della farina e si sbracciò nella mia direzione per salutarmi, con un enorme sorriso stampato in volto.

Mi affezionavo a tutti. Era questo il mio problema. Mi affezionavo alla persone che entravano a far parte della mia quotidianità, rompendo il muro dei livelli sociali e ci rimanevo male quando questi "livelli" tornavano a ricordarmi che no, non potevamo essere amici fino in fondo.
Per questo non mi fidavo degli altri. Stupidamente perché li caricavo di aspettative, di un desiderio non applicabile nella realtà, aspettandomi sempre di essere ferito da loro proprio per via di quel distacco naturale che intercorreva tra persone, fondamentalmente, estranee.

Entrai in macelleria.

-Buongiorno- mi salutò il macellaio, riconoscendomi. -Cinque fette?- annuii.

Di solito scambiavamo qualche parola mentre lui recuperava i petti di pollo dalla vetrina e preparava le fettine da consegnarmi. Ma quel giorno mi sentivo troppo fuori fase, sapevo di poter apparire strano, diverso dal solito, nonostante tutto, però, di parlare non ne avevo voglia. Sospirai.

-Oggi fa caldo- disse l'uomo e io annuii. -Sta bene con la divisa-

-Grazie. Valerio non ci sta?-

-Eh, Valerio se n'è andato-

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