25 ~ Panico

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Com'era giusto che fosse, mi ero raffreddato. Freddo e maniche di camicia non andavano per niente d'accordo. Altro che Gene Kelly: la vita reale restava una merda e io un tipo strano a cui piaceva l'inverno.

Quel giorno ero libero dal lavoro, e mi trovavo sparapanzato sul letto, incastrato tra Orso e Ombretta, coccolato dal loro calore canino, intento a scrivere.

Avevo molto di cui scrivere.

Stefano mi si era dichiarato.

Non avevo avuto il coraggio – come al solito – di essere sincero fino in fondo come me stesso e con le persone che mi circondavano, tenendo per me sentimenti che, sentivo, stavano cominciando ad ammalarsi.
Era una malattia che conoscevo anche abbastanza bene, fatta di delusione, rabbia e tristezza.

Paranoie e ancora paranoie.

Stavo pure mentendo alle amiche, nascondendo loro il mio nuovo periodo no, solo per non stressarle, solo perché mi ero quasi convinto che, in fin dei conti, a loro non interessasse più.

E quindi mi restava la scrittura. Mi restava la parte più importante di me, vero, ma era anche quella che mi rendeva più solo, quella che necessitava che fossi davvero da solo per scavarmi dentro, e arrivare faccia a faccia con tutto quello che nascondevo sotto la superficie di un falso sorriso.

Erano momenti quasi magici – spesso tesi, dolorosi, ma magici. Un po' come sedersi con quella parte di sé di cui ci si vergogna, che si nasconde, ma che è sempre parte di sé – ed è forse la più vera e genuina – ed era bello darle voce ogni tanto, permetterle di dire la propria in piena libertà, fuori dalle catene che le imponevo, dalle costruzioni sociali e mentali che mi imponevo.

Erano momenti che non duravano molto, però. Perché, in fin dei conti, non ero mai solo abbastanza.

-Cla', che stai facendo? Ha chiamato tuo fratello e mi ha detto che non ti sente da quasi un mese-

Alzai gli occhi al soffitto. -Sto scrivendo- risposi stizzito, ignorando volutamente la seconda parte della sua frase.

-Ah, scusami- e anche se si era appena scusata per avermi interrotto – e sapeva benissimo quanto detestassi essere interrotto quando scrivevo – sedette ai piedi del letto.

Ombretta sbuffò e si alzò, andando a gettarsi con poca grazia sul pavimento. Orso si pose di schiena, mentre dormiva, ma la sua stazza gli impediva di mantenere a lungo una tale posizione e pure lui sbuffò, ricadendo di lato e quindi addosso a me, bloccandomi un braccio sotto il suo peso, impedendomi di continuare a scrivere. Quarantadue chili su un braccio. Il segnale che mia madre stava sicuramente aspettando: avrebbe potuto interrompermi di nuovo.

-Tuo fratello ce l'ha di nuovo con me perché è convinto che siamo noi che non ti facciamo uscire, che ti impediamo di fare quello che vuoi e...-

E smisi di ascoltarla, perché il ritornello lo sapevo a memoria e sapevo pure da quale bocca proveniva. Avevo due fratelli, sì, ma quello che rompeva il cazzo sindacando sulla mia vita privata era solo uno. -Puoi dire a Guido che se vuole chiarimenti su quello che faccio e perché lo faccio, può smettere di rompere le palle a te e venire a chiedere a me, per esempio. Visto che entrambi ormai abbiamo trent'anni e potremmo pure iniziare a comportarci da adulti, no?-

Mia madre scosse la testa e prese ad accarezzarmi distrattamente una gamba. -Ventinove e trentuno-

-Quello ch'è. Hai capito cosa intendevo, no? Potrò essere libero di vivere una vita diversa dalla sua? Oppure perché è troppo diversa dalla sua deve per forza essere sbagliata? Come se avesse sempre ragione lui...-

Annuì e sospirò. -Glielo dico che sei tu, ma lui non mi crede-

-E allora che venga a chiedere a me! Sono ancora in grado di intendere e volere e di decidere per me-

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