XV.

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Stranamente, la settimana trascorse più che bene, a parte per Mary, a cui mancava Paul, dato che le era stato impedito di vederlo. Non andò nel migliore dei modi neanche per Edward, poiché falliva in ogni suo intento nel conquistare Rose, anche se sembrava lei stesse cedendo. Fu, però, Margaret ad esserne appagata, era tanto tempo che gli occhi di Jonathan le parevano spenti, ma, finalmente, in quelli ci vide la felicità.

Era sera, Esmeralda era intenta a leggere un libro, se ne stava per conto suo, seduta sul divano.

Jonathan le si avvicinò: «Miss. Duval, come state?», chiese.

«Bene», rispose la duchessa.

«Mi avete evitato tutto il giorno, oggi», pronunciò, nella speranza che fosse solamente una sua impressione.

Lei chiuse il libro, voltandosi verso il visconte: «Avete perso la giacca, strada facendo?», domandò, con aria curiosa.

«Perdonatemi, cosa volete intendere?», non capiva.

«Stamani avevate la giacca quando siete uscito di casa, al ritorno solamente una camicia... mal ridotta, per giunta», gli spiegò.

Lui tentò di rispondere: «Devo averla dimenticata da...», ma la frase fu troncata da Esmeralda: «Questo non è più un problema, sono riuscita a recuperarla».

«Sul serio?», sembrava confuso.

«Sì, è su quella sedia», indicò la stessa con un cenno della testa, «Una vostra carissima amica è passata di qui, mi ha detto che l'avevate dimenticata a casa sua. A proposito, vi porto i suoi saluti».

Jonathan voleva accertarsi che la duchessa non fosse a conoscenza di altro: «Ha detto solo questo?».

Gli si avvicinò: «Mi ha scambiata per una cameriera, dato che stavo aiutando quest'ultima con le faccende di casa», sospirò, «Dunque, la vostra carissima amica, mi ha confessato quanto bravo siate nel soddisfare ogni sua voglia. Ma, ovviamente, mi ha raccomandato di non dire tutto questo a vostra moglie. Terrò il segreto, stiate tranquillo», concluse, dirigendosi verso l'uscita.

«Dove state andando?», la raggiunse lui.

«Il più lontano possibile da voi».

«Parliamone, vi prego», la implorò, come se stesse per piangere.

«Vi siete preso gioco di me per chissà quanto tempo».

«Posso spiegarvi...»

«Bisognerebbe amare, amare follemente, senza vedere ciò che si ama. Perché vedere è comprendere, e comprendere è disprezzare. Perciò, non avete nulla da spiegarmi, ho compreso». Infatti, in quel momento, da parte della ragazza, c'era solamente disprezzo nei confronti del visconte.

La lasciò andare, pensando che, il giorno dopo, tutto sarebbe tornato come prima, che al suo risveglio, l'avrebbe ritrovata accanto a sé.

Non fu così.

Pioveva in quell'inizio giornata, e non di poco. Dove passò la notte Esmeralda, e anche le altre due a seguire? Non aveva molte amicizie a Londra, ma l'unica persona di cui riusciva a fidarsi, era una sarta, conosciuta la prima volta che mise piede in quella città: le si strappò l'orlo del vestito e una ragazza, talmente gentile, si offrì a riparare il danno.

«Non fate colazione?», le chiese la ragazza dal nome ancora sconosciuto.

La duchessa fissava il pavimento, seduta ad uno sgabello di legno, difronte al camino: «No, vi ringrazio, Diana». Fissava un punto fisso, poiché era molto probabile che se avesse fatto contatto visivo con la sarta, sarebbe scoppiata in lacrime.

Dunque, il suo nome era Diana: «State piangendo, Miss. Duval?», notò, avvicinandosi.

A quelle ultime parole, le salì un senso d'angoscia ancora più pressante di quello precedente. Fino a quel momento, soltanto una persona l'aveva chiamata "Miss. Duval". Ergo, vari ricordi le pervasero la mente.

Diana avanzò con le parole: «Siete innamorata di lui?».

«Decisamente no!», esclamò.

«Ne siete sicura?».

«Mi piace soltanto», pronunciò timidamente.

In quell'esatto momento, dall'altra parte della città, Edward bussava al portone di casa di Rose. Lei uscì fuori: «Hai bisogno di qualcosa, Edward?».

Quel giorno Edward chiese consigli al fratello maggiore, nonostante lui si sentisse l'ultimo uomo a poter parlare d'amore. Gli disse, semplicemente, di dire alla ragazza amata ciò che provava realmente, senza tralasciare alcun dettaglio. Gli consigliò di essere sincero con lei, sin dall'inizio. Parlò per esperienza personale.

«Rose...», faticò a pronunciare, «Mi sono sempre chiesto quale fosse il momento giusto per dire "ti amo" ad una persona. Ma ho capito che, semplicemente, è quando non puoi farne a meno. Quando guardi chi ami e non riesci più trattenerti da quanto il sentimento straripa dal cuore... Il problema è che sono un disastro a dimostrarti quello che sento».

In risposta, lo baciò, senza pensarci due volte: «Ho sempre puntato all'irraggiungibile, poiché temo la sofferenza».

Edward capì che per "irraggiungibile" Rose si riferiva al fratello, avendo possibilità misere di intraprendere una storia con lui, quasi pari a zero. Semplicemente, non voleva soffrire per amore, forse per timore di un tradimento, di una non corrispondenza, di smettere di crederci.

Invece, a casa, Jonathan bussò alla porta della camera di Mary, che da lei ottenne il consenso di entrare.

«Sai, avevi ragione, Rigby è ancora tutto da scoprire per la scienza», ironizzò, forse era un suo modo per chiederle scusa.

«Finalmente la pensiamo alla stessa maniera», scherzò Mary, continuando a spazzolarsi i capelli.

Lui, improvvisamente, divenne serio: «Mi dispiace, Mary. Ho pensato solamente a ciò che fosse meglio per la famiglia, mettendo te in secondo piano. Certo, Rigby è il nipote della regina, ma, se c'è qualcosa che vale più della ricchezza, per me, è saperti felice. Non voglio impedirti nulla».

Mary gli sorrise, subito dopo si avvicinò ad abbracciarlo: «Ti voglio bene, Jonathan».

«Anch'io».

«Ma, ora, parliamo di te», cambiò argomento, sciogliendo l'abbraccio, «Come stai?».

«Bene», rispose deciso.

«Ne sei sicuro? Potresti andare a cercarla e...».

«Sto avendo da fare, in questi giorni», disse fermamente, quasi come se non provasse alcuna emozione.

La sorella evitò di insistere.

Lui si diresse di sotto, come sempre sul divano, in sala, prendendo in mano le carte delle contabilità.

Margaret si sedette vicino a lui, che ormai non riusciva a nascondere le lacrime. «È impensabile trovare una persona così. Una persona che ami», gli accarezzò il volto, «Mi dispiace... mi dispiace che tu non abbia potuto salutare per l'ultima volta tuo padre, quel giorno. E mi dispiace per tutto quello che è successo nei giorni successivi. Potessi tornare indietro... non hai idea di quanto vorrei poter cambiare tutto. È il mio ultimo pensiero prima di dormire e il primo appena mi sveglio, ogni mattina. Mi tormenterà per sempre.»

Lui asciugò le lacrime, che cadevano in silenzio: «Non credo di poterla vedere», riuscì col dire.

Sua madre non mollò nel farlo ragionare: «Perdere Vincent è stato il momento più difficile della mia vita, e il dolore che ho provato, non si può descrivere. Ma c'è una cosa che mi ha dato almeno una parvenza di conforto, ed è stata sapere che avrei scelto quella vita con lui, ancora e poi ancora. E non esiterei a provare di nuovo quello stesso dolore, perché per il vero amore ne vale la pena. Sempre e comunque. Non perderla, Jonathan. Non puoi perderla». Concluse, accarezzando fra i suoi palmi la mano del figlio.

Fu la prima volta che Jonathan pianse, dopo la morte di suo padre.

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