8. Liberazione

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Levi fissava lo scorrere lento e vitale delle persone al di fuori dell'ampia vetrata dello studio della sua psicologa. Fuori il sole splendeva, aprile era quasi giunto e si iniziava ad intravedere la calda e secca primavera che si stava prospettando.

La mascherina prudeva agli angoli dell'elastico, esercitando una pressione costante sul ponte del naso che lo stava mandando fuori di testa. Continuava a tirarla, spostarla e pizzicarla, ma niente da fare, non aveva intenzione di dargli tregua.

Era consapevole della donna seduta di fronte a sé, dritta sulla schiena, le gambe accavallate e una penna morbidamente abbandonata fra le dita. Aspettava pazientemente una sua risposta all'osservazione che gli aveva appena fatto, ma Levi non sapeva cosa dirle. Era tutto così maledettamente complicato nella sua testa e odiava il fatto che una volta espresso a parole, al contrario, sembrasse così semplice. Non lo era, se lo fosse stato avrebbe risolto il problema, giusto? Non era uno stupido, e non aveva intenzione di lasciarglielo credere.

La dottoressa Agostini lo osservava con attenzione, senza perdersi nemmeno un suo respiro, e la cosa non lo aiutava minimamente. Anche i suoi vestiti dai colori sgargianti e gli improbabili accessori lo mettevano in difficoltà. Non ne era certo, ma pensava che ci fossero dei limiti professionali a come uno psicoterapeuta possa presentarsi ai suoi pazienti.

"Allora, signor Allevi? Cosa ne pensa?" il suo tono sfiorava il canzonatorio mentre lo osservava con un accenno di sorriso che le si rifletteva negli occhi.

"Non lo so," le rispose sinceramente "credo di poterlo fare. Non so quanto sarà utile, però."

"Di quello ci occuperemo in seguito, che ne pensa?"

Levi odiava quando gli chiedeva cosa ne pensasse, e succedeva all'incirca alla fine di ogni sua frase.

Quello che diceva la dottoressa sembrava giusto, ma il tono era sempre perfettamente in equilibrio fra la serietà e la presa in giro, e Levi non sapeva come interpretare la cosa.

Quando Damon gli aveva passato il suo contatto si aspettava di incontrare tutt'altra persona. Doveva ammettere di essere vittima del solito cliché da psicologa: aria seria, occhiali troppo grandi, accenno di sorriso e tono rassicurante. Invece si era trovato di fronte un'energica sessantenne che aveva una passione sfrenata per lo shopping da Zara e che non aveva la minima premura a rassicurarlo.

Erano passate un paio di settimane, l'aveva incontrata in diverse sedute e si era convinto che Damon si fosse irrimediabilmente sbagliato. Quella non poteva essere la psicologa giusta per lui. Doveva esserci un errore, ma da quando avevano litigato Levi non se l'era più sentita di contattarlo, così si era arreso e aveva continuato a prendere appuntamento con la dottoressa Agostini.

"Lo farò" si arrese, afflosciandosi contro lo schienale della poltrona sulla quale era seduto. Non si era nemmeno reso conto di quanta tensione avesse accumulato fino a quel momento.

"Ottimo, allora direi di rivederci fra una settimana e scoprire se questa laurea me la sono guadagnata o meno. Che ne dice?"

Levi sospirò. Non aveva nulla da dire, ma annuì.

***

Quello stesso pomeriggio si era cambiato, infilando i suoi pantaloncini da corsa e la sua maglia preferita. Era un cimelio della vita con Damon, la conservava soltanto per quando usciva a correre o per i suoi weekend selvaggi passati sul divano a rimpizzarsi di serie e patatine. La considerava la sua "maglia della vergogna", riservata ai momenti in cui era in condizioni indecenti ed era meglio non incrociare persone che lo conoscessero. Gli unici momenti in cui una persona con uno straccio di dignità può permettersi di indossare una maglia del proprio ex.

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