𝐣𝐢𝐦𝐢𝐧 𝐥'𝐡𝐨 𝐮𝐜𝐜𝐢𝐬𝐨

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"Jimin, ti ho portato qualcosa da mangiare." Disse Hoseok, entrando nella tenda.

"Non ho fame." Rispose lui.

"Ma non puoi restare a digiuno! Sono due settimane che vai avanti così!"

"Hoseok, ho detto che non ho fame!"

Il più grande sospirò rassegnato e uscì dalla tenda con il pasto tra le mani ancora caldo .

"Allora? Ha rifiutato anche questo?" Chiese Layla preoccupata.

"Già. Non so più cosa fare con lui. Non vuole mangiare più nulla! Non so quanto possa resistere ancora, continuando a comportarsi in questo modo." Affermò Hoseok.

La ragazza guardava l'ingresso della tenda con occhi trasparenti. Sapeva quanto Jimin stesse soffrendo in quel momento, lui che era così tanto legato a Jungkook, ma doveva reagire. Lei e i ragazzi gli avevano concesso qualche giorno di tranquillità per maturare e accettare il lutto, ma quei giorni diventarono ben due settimane. In quel periodo di assenza, Layla aveva visto Jimin, si e no, due volte. Una a causa di un finto attacco nemico, l'altra perché aveva ricevuto una chiamata di monitoraggio dal Quartier Generale alla quale aveva dovuto obbligatoriamente rispondere per fornire un resoconto della situazione. In quei giorni si era resa conto che la figura di Jimin era indispensabile per la squadra. Lui aveva sempre delle parole di conforto per tutti, aiutava i meno esperti e consolava chi era stanco della vita di trincea; era sempre gentile e disponibile e la sua risata era contagiosa. Jimin era la luce in quella guerra e aveva accompagnato i suoi commilitoni fino all'ultima settimana di servizio. Portava avanti tutto l'esercito con la sua sola presenza e non se ne rendeva conto. Il suo umore aveva un peso determinante nelle prestazioni e nell'atmosfera nell'accampamento. E da quando lui si era rinchiuso nella sua tenda, tutto sembrava spento e l'aria diventava sempre più pesante e irrespirabile. Layla, dunque, si ritrovò a dover ricoprire un compito così ardito da sentire una certa pressione sulle spalle e un nodo alla gola che non riusciva a sciogliere ogni volta che cercava di parlare con gli altri suoi colleghi. Pensava solamente a quando sarebbe tornata a casa, in Italia. Mancava pochissimo alla fine del loro incarico. Presto sarebbero arrivati i loro sostituti e loro sarebbero potuti rientrare, finalmente, in patria.

~~

Quel giorno tutto sembrava tranquillo a Kabul, ad eccezione di Jimin che, come era ormai solito, se ne stava nella sua comfort zone, rinchiuso al buio e in silenzio. E proprio mentre Layla aveva il pensiero rivolto al biondo, durante un monitoraggio nelle zone limitrofe, si ritrovò di fronte la situazione che si era immaginata più e più volte nella sua mente. Aveva pregato in tutti i modi possibili che ciò accadesse; pensava di essere pronta per quello, fino al momento in cui ci si trovò, quando capì che era tutto tranne che pronta. Davanti a lei, c'era lui. Vedeva quell'uomo. Quell'assassino. Stessi occhi, stesse mani che uccisero anni prima il ragazzo che amava, stesso volto cavato dalla crudeltà.

lui." Sussurrò con una freddezza tale da mettere i brividi. Così, immediatamente, afferrò il mitra e prese la mira. Voleva piantargli un proiettile nel cranio. Le tremavano le mani per la rabbia. Era lì, davanti a lei, ma lei non riusciva a premere quel dannato grilletto. Doveva farlo! Doveva ucciderlo! Il respiro era affannoso e accelerato. La realtà è che non aveva il coraggio e lo sapeva benissimo. Non riusciva a guardare, perché negli occhi di quell'uomo rivedeva Nathan. Rivedeva quel giorno. Rivedeva quel sole cocente e ustionante sopra di loro.
Chiuse gli occhi.
Poi sparò.

Ma se avesse saputo cosa avrebbe scaturito quello sparo, forse, ci avrebbe pensato infinite volte. L'uomo era disteso a terra senza vita. Giustizia era stata fatta, ma non la cosa giusta. Vendetta personale. Non è da soldati, è da stupidi. Non è da eroi, è da vigliacchi.

E Layla lo sapeva benissimo questo.

Buttò l'arma a terra e immediatamente si guardò le mani.

Che cosa ho fatto?

Si chiedeva.

Layla, quel giorno tornò all'accampamento e la prima cosa che fece fu andare da Jimin. Non sapeva nemmeno lei il perché, ma aveva bisogno di qualcuno che la sapesse ascoltare e che non la giudicasse. Entrò senza chiedere il permesso e si sedette accanto a lui sulla brandina.

"Jimin." Disse con voce strozzata.

Il ragazzo la vide macchiata di sangue e si alzò di scatto.

"Layla che cosa hai fatto? Stai bene? Sei ferita?"

La ragazza scosse la testa, mentre le scendeva sulla guancia una lacrima che non riuscì a trattenere.

"Cosa è successo?" Continuò il ragazzo.

"L'ho ucciso."

"Chi?"

Ma Layla non rispondeva.

Jimin non capiva, era confuso.

"Layla, chi hai ucciso?" Insistette.

"L'assassino di Nathan."

Il biondo rimase di stucco, non disse niente e l'abbracciò, passandole una mano tra i capelli.

"Pensavo c-che una volta ucci-ucciso sarei s-stata bene, e allora perché m-mi sento così?"

Le mani le tremavano.

"Pensa che domani sarà tutto finito. Torneremo a casa."

Lei annuì. Eppure l'idea di stare lontana da lui e dai ragazzi la preoccupava da morire. Con loro lei non era più sola, ma una volta che sarebbe tornata a Roma, non avrebbe più avuto nessuno.

"Non ne sono così sicura."

"Che cosa vuoi dire?"

"Non voglio lasciarvi... Lasciarti."

I loro occhi si incrociarono per un secondo e lei, con le guance rosse, si schiarì la voce.

"Scusa per averti disturbato. A-Adesso vado."

Jimin, in un primo momento, rimase in silenzio, ma mentre Layla si stava per alzare...

"Vieni in Corea con me."

La ragazza girò la testa di scatto verso il soldato.

Lui sorrise leggermente.

"Nemmeno io voglio lasciarti."

Si alzò e la baciò.

Un bacio lungo, fatto di paura, desiderio dell'altro, ma soprattutto d'amore. Un bacio tra due anime che sapevano che quella sarebbe stata una relazione che avrebbe portato solamente dolore, ma in quel momento era l'unica cosa che poteva far riemergere entrambi dalle tenebre.

𝐋𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐭𝐫𝐚 𝐦𝐞 𝐞 𝐭𝐞 |𝐏𝐚𝐫𝐤 𝐉𝐢𝐦𝐢𝐧|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora