𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐢𝐧𝐢𝐳𝐢𝐨

13 1 0
                                    

J-hope

L'esercito? È una storia lunga. Tutto è cominciato quando incontrai Namjoon, al liceo. Lui era uno di quei ragazzi che parlano poco in classe. Se ne stava sempre in un angolo a leggere un libro. Poi, quando finivano le lezioni, si metteva in sella alla sua bici e tornava a casa. Legai molto con lui, pur essendo completamente diversi, tanto da scegliere di andare in leva militare obbligatoria insieme. Ci assegnarono allo stesso campo e da quel momento diventammo inseparabili. Amammo così tanto quell'aria di umiltà che quel lavoro riponeva da decidere di dedicare tutta la nostra vita alla patria. Fu una decisione condivisa, ma presa alla leggera. Perché io avevo piani diversi per il mio futuro.
Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio sogno, avrei risposto mille cose insieme. Ma un sogno rimane un sogno, sempre, anche in punto di morte. E il mio era traferirmi in Brasile.
Non so nemmeno io il perché di quell'amore nei confronti di quella terra, volevo solo prendere un aereo, salutare tutti e rimanere lì per sempre. Per sempre, eh? Che utopia la parola "sempre". È una dolce menzogna, una melodia stonata, un'illusione concreta. Sembrava che potessi fare tutto prima di imbracciare armi. Poi la Nazione ha scelto per me. Ero portato per la vita di trincea, ero umile e sorridente. Il mio temperamento era adatto per gestire un team, così mi misero a capo di un gruppo di ragazzi inesperti. Sognavamo di viaggiare per salvare la gente dalla fame e dalla guerra.
Morirono tutti.
Un incarico da poco, dicevano. Beh, l'Iran non era da poco.
Poi mi trasferirono in un altro gruppo. Quello di Jimin e Jungkook. Gli altri si aggiunsero dopo. Mi aiutarono tanto a non mollare. E non lo feci mai. Non lo pensai nemmeno una volta, perché chi se ne andava, non solo lasciava un vuoto nel cuore, ma abbandonava la parola data: seven makes one.
Sette ragazzi partirono per la loro missione: l'Afghanistan.
Bella Kabul, ma senza quelle bombe.
Belle le donne, ma senza quei veli sugli occhi.
Belli i bambini, ma senza le lacrime sul viso.
Ci rendemmo conto che non era così semplice come avevamo pensato. Il male sembrava aver preso il sopravvento nel mondo.
Ci accorgemmo che basta spostarsi di poche ore di aereo per capire quanto l'uomo, a volte, possa essere meschino. Ci sembrò
di star rivivendo il lontano 1950 e la guerra di Corea. Vidi tanta povera gente morire ingiustamente. Quando tornai a casa vedevo sangue ovunque e una ragazza che mi tormentava nei sogni. Mi urlava di salvarla, di correre dal fratellino piccolo, di scappare. Non capivo nemmeno io cosa volesse, non conoscevo la sua lingua. Peccato che non possa tornare indietro per domandarglielo davvero e per imparare almeno qualche parola afghana in più. In quel caldo 2 giugno, quella ragazza venne sgozzata davanti ai miei occhi ed io rimasi segnato a vita. Lei, come tante altre, lottava per i propri diritti e per i suoi sogni. Voleva una Paese libero, pacifico, sorridente e caldo. Che poi, caldo già lo era, ma ad ogni esplosione l'aria diventava ghiacciata e dannatamente rigida. Fatima si chiamava. Ricordo bene i suoi lineamenti. Le parlai una volta, un'altra la salvai, la volta dopo la baciai e la volta dopo ancora la vidi morire. I suoi occhi azzurri mi avevano intrappolato in quel circolo vizioso chiamato Amore. Masticava l'inglese più del cibo stesso. E con qualche gesto si faceva capire.
Voleva vivere ancora un altro po' e condividere quel tempo con la sua famiglia. Suo padre era stato ucciso perché anti-conformista e sostenitore di un Paese democratico. Voleva esaltare il suo nome ed essere una donna libera ed emancipata. E io che potevo godere di tutto quello, nel mio Paese, ero lì a salvare lei e i suoi giusti concittadini.

Io e gli altri ne abbiamo parlato a lungo. Forse la decisione migliore era quella di mettere da parte l'esercito e di porre fine a quel periodo della nostra vita dolce e amaro. eravamo cresciuti ormai, ognuno aveva dei nuovi sogni, come farsi una famiglia o trovare un lavoro stabile e sicuro, con uno stipendio alto tanto da permetterci di condurre una vita agiata, comprare casa o di investire in azioni.

"Volete davvero rinchiudervi in un ufficio ed essere trattati come pedine di un gioco da tavolo?" Jimin insisteva.

Namjoon sospirò. "Jimin, ascolta, ci eravamo fatti una promessa, ricordi? Noi abbiamo preso una decisione, adesso spetta a te. Se hai voglia o meno di lasciare l'esercito, sta a te capirlo. L'unica cosa che ti possiamo dire è che qualunque cosa tu sceglierai, per noi non cambierà nulla. La nostra amicizia non cambierà! Continueremo a sentirci e a incontrarci. Capiamo che il tuo senso di appartenenza al corpo militare fosse profondamente forte, molto più di quanto noi tenessimo alla patria e alla bandiera. E capiamo anche che la storia di tuo fratello c'entri con questo."

"Mio fratello non c'entra nulla! Pensavo che fossimo tutti della stessa idea. Io ritengo che quello che state facendo sia irrispettoso. Irrispettoso nei confronti di Jungkook e di tutti i nostri amici che sono morti per la pace. State scappando come conigli perché avete paura. Avete visto la morte in faccia. Codardi!"

"Jimin." Lo rimproverò Layla per come stava parlando.

"Ricordate in che momento ci siamo fatti quella promessa?" Continuò. "Era poco prima che atterrassimo in Iraq. La nostra prima missione. Non avevamo ancora sperimentato direttamente cosa significasse vivere la guerra. Non sapevamo nulla, né sulla vita, né tantomeno sulla morte. Eravamo ingenui. Giovani. Eravamo dei sempliciotti. Ma ora siamo uomini. Siamo grandi. Non possiamo ritirarci adesso."

Ma più parlava, più a Jimin sembrava di non essere ascoltato.

Calò il silenzio tra loro. Poi sospirò.

"Ho capito." Affermò alzandosi dal divano di casa Min. "Fate quello che volete. Qualora cambiaste idea, sappiate che mi troverete sempre al solito posto, con la stessa divisa addosso." Prese la giacca e uscì dall'appartamento.

Layla rimase lì, lo guardò incamminarsi verso la porta e chiudere quest'ultima alle sue spalle. Anche lei, come gli altri, non sapeva ancora come occupare il suo tempo lì a Seoul. Non sapeva se continuare a servire l'Italia o trovarsi un nuovo lavoro in uno degli ospedali più grandi e importanti di tutta l'Asia. Tuttavia, aveva solo un pensiero nella testa. Temeva che Jimin, qualora avesse scelto una decisione distante dal suo pensiero, non l'avrebbe perdonata.

𝐋𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐭𝐫𝐚 𝐦𝐞 𝐞 𝐭𝐞 |𝐏𝐚𝐫𝐤 𝐉𝐢𝐦𝐢𝐧|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora