24. il mondo degli gnomi

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15 novembre 1963, ore 17:22

Mentre si schiantava al suolo, Cinque ebbe una leggera sensazione di dejà-vu. Lo stesso atterraggio doloroso e nebbioso che faceva ogni volta che viaggiava nel tempo. Alzandosi di fretta, si accorse che le sue gambe lo reggevano a malapena. Si sentiva stremato, ma non c'era tempo per autocommiserarsi.
Si guardò intorno. Si trovava in un vicolo di edifici dai mattoni a vista e pieno di cassoni della spazzatura strabordanti. Gli ultimi fievoli raggi di sole gli colpivano le spalle e riflettevano sul vetro di una finestra dell'edificio di fronte a lui, dietro cui si nascondeva un'ombra tremolante. Una fila anche troppo lunga di antenne satellitari era ordinata sul tetto. Era così strano che un'irrefrenabile voglia di andare a controllarlo lo prese.
Sul portone arrugginito c'era scritto "Carico e scarico merci Morty's radio & televisioni". Entrò allora nell'edificio, teletrasportandosi all'interno. Più che il magazzino di un negozio pareva una discarica di elettronica, ma parecchio antiquata. Delle scale portavano al piano superiore e, alla fine di quelle, si trovava una porta di quelle da ufficio con la veneziana dietro alla finestrella. Vi bussò, ma ad aprirsi fu la porta accanto. Una testa dai capelli ingellati sbucò all'improvviso.
«

Che cosa vuoi?» chiese seria la voce maschile.
«Salve, vendo enciclopedie per il mio gruppo giovanile, mi chiedevo se...»
L'uomo gli sbatté la porta in faccia, pensando che sarebbe bastato per levarsi il ragazzo di torno.
Cinque si teletrasportò dietro alla porta, in quello che sembrava l'appartamento di un accumulatore seriale complottista. Pile di videocassette e ritagli di giornale erano ovunque, seppur in ordine.
L'uomo cacciò un urlo che venne soffocato però subito da un'espressione interrogativa.
«Come... tu...»
«Enciclopedie, ma da dove mi è uscita questa» si chiese il ragazzo aggirandosi per quello che sembrava un soggiorno-studio. Più roba appiccicata ai muri leggeva, più si sentiva sorridere per l'ossessione di questo tale per gli alieni e le cospirazioni. Doveva piacergli proprio tanto il governo.
«Come hai fatto a fare quella... cosa?»
Cinque prese una caraffa di caffè su una delle scrivanie e ne versò in una tazza. «Mmh. È colombiano?»
«Non lo so, lo fa sempre la mia figliastra il caffè». Era spaventato, ma più dubbioso che altro.
Mentre si accomodava sul divano, il ragazzo sentì di nuovo le gambe fargli male, la gola e gli occhi secchi. Il viaggio nel tempo lo aveva distrutto, per non parlare del fallire nel salvare il mondo. Straziante.
«In che anno siamo?»
«1963, è il 15 novembre. Tu vieni dall'aerea 51, non è così? Devi essere fuggito, come hanno fatto gli altri»
«Gli altri?»
«Quelli che sono arrivati con la luce, quella dell'ufo» l'uomo indicò delle foto in bianco e nero su una lavagna di sughero. «Tu sei uno di loro!»
Cinque non si stupì di quelle parole insensate. Era abituato agli squilibrati di mente.
Sulla lavagna quelle foto raffiguravano delle sagome, di cui riconobbe Vanya e Luther. Dunque erano anche loro a Dallas. «Sono arrivati tutti con questa luce. Il primo è arrivato tre anni fa»
La risposta condusse subito il suo pensiero a Zero. Se era morta, dov'era finita? Per quanto ne sapesse i corpi inanimati, quali i cadaveri, se posti in un portale temporale venivano risucchiati in una sorta di buco nero di cui persino l'Organizzazione e la Kismet sapevano molto poco. Non c'erano sue fotografie sulla lavagna, ma non c'erano nemmeno quelle di Diego, Allison e Klaus. Sarebbe potuta essere morta dopo essere arrivata lì, o non ci era ancora arrivata. Avrebbe potuto chiedere di lei a quel strano tale, ma temeva la risposta. E comunque ora aveva un'altra missione.
«Tra pochi giorni il presidente Kennedy verrà ucciso, e fra altrettanti pochi il mondo finirà» disse Cinque appoggiando la tazza vuota sul tavolino «Mi devi aiutare»
L'uomo fece un sorrisone e batté le mani tutto emozionato. «Certo, m-ma certo. Guarda» invitò mostrando un giornale con una foto-segnaletica in prima pagina «Penso che quest'uomo sia uno di voi». Il titolo sul giornale diceva "arrestato un uomo disturbato con dei coltelli" e nella foto c'era Diego, con un'espressione stranamente fiera per uno che era stato in polizia fino all'altro giorno.
«Qui dice che si trova all'ospedale psichiatrico» continuò entusiasta il tale. «Ma poi, come dimenticarmela, c'è anche...»
Cinque non lo sentì e ordinò risoluto che andassero al manicomio di Dallas per cercarlo.
«Ovviamente, ma a quest'ora l'orario di visita sarà finito, e poi tra poco arrivano i miei ragazzi e devo preparare la cena...»
«Allora dimmi dov'è che ci vado io»
«Non preferisci restare qui? Così conosci i miei ragazzi, che hanno la tua età più o meno. E forse dovresti riposarti, sembri stanco»
Si pentì subito di aver osato accusarlo di stanchezza. Chi? Lui? Stanco? Quando mai. E poi anche se fosse, non poteva permettersi di essere stanco. Aveva la sorte del mondo sulle spalle, o no?
Gli lanciò un'occhiataccia. «Non ho tempo per le stronzate. Il tempo scorre e non ho intenzione di lasciare che il mondo finisca di nuovo»
«Di nuovo?»
«Vuoi morire, scriteriato?»
«Mi chiamo Elliott. E poi no, non vorrei morire...»
«Allora collabora. E se sopravviviamo, ti aiuterò a dimostrare le tue teorie da complottista annoiato»
«S-sarebbe di grande aiuto per noi» balbettò Elliott emozionato.
«Noi chi?»
La porta dello pseudo-appartamento si aprì scricchiolando, lasciando intravedere una figura con delle buste di carta tra le braccia.
«Papà» cominciò lui mentre chiudeva l'uscio con una spallata «Sono a casa. Erano finiti i tuoi biscotti all'avena».
Appoggiata la spesa in cucina, entrò nel salotto e si fermò non appena vide lo sguardo inquisitorio di Cinque squadrarlo dalla testa ai piedi. Indossava dei pantaloni con il velluto a coste e una camicia a quadri in modo sobrio, forse troppo per un ragazzo di quella giovane età. Continuava a scuotere la testa per spostare i capelli biondo cenere ribelli ad un taglio fatto male. Lo osservava da dietro un paio di occhiali e con una faccia che Cinque aveva definito nei suoi pensieri "da schiaffi".
«Non sapevo avessi ospiti» disse il ragazzo col volto interrogativo. «Sono Steve» porse la mano a Cinque per stringergliela, che continuò a guardarlo male senza contraccambiare il saluto.
Dato che nemmeno Elliott sapeva con precisione chi fosse quel tale in divisa sul loro divano, non seppe far nulla se non attorcigliarsi le mani e sorridere imbarazzato. «Lui è...»
«Sono arrivato qua con l'ufo intergalattico e devo sterminare l'umanità» sbuffò Cinque alzandosi dal divano, diretto alla ricerca di un volume di pagine gialle su cui cercare l'indirizzo del manicomio.
«Non che m'interessi, ma non avevi detto di avere anche una figlia?» continuò.
«Ah sì, non è proprio figlia mia... a proposito, dov'è? Non era con te?» disse Elliott voltandosi verso il figlio.
«Ha insistito per andare da sola a prendere una cosa, non mi ha voluto dire dove»
Cinque si era beccato della gente proprio poco collaborativa. Facevano esattamente come la sua famiglia. Si sentiva quasi a casa.

Tre ore dopo stava camminando sulla strada del ritorno dal manicomio per quel postaccio in cui abitava Elliott col marmocchio. Era stanco e doveva ancora scrostarsi il sangue della sorella dalle mani e dai vestiti. Gli era morta tra le braccia la migliore amica soltanto poche ore prima, del resto. Aveva fatto in tempo a fare molte cose quel giorno e ci fece una bella lista mentale:

-sparpagliare i fratelli sulla linea temporale a Dallas
-vedere il mondo quasi finire di nuovo
-incontrare Hazel
-farsi spiegare da Hazel che il mondo finirà di nuovo
-vedere Hazel morire
-ritrovarsi nella bettola di un complottista e suo figlio
-incazzarsi
-andare al manicomio
-spaventare a morte alcuni pazienti
-farsi inseguire dalla sicurezza
-non trovare Diego
-incazzarsi di nuovo

Una giornata produttiva per il nostro eroe, che invece l'aveva trovata un poco snervante. Per questo motivo entrò nel primo drug store aperto a quell'ora e "comprò" (si fa per dire, anche perché non aveva né i documenti né l'aria di un maggiorenne) una bottiglia di qualche superalcolico preso a caso.
Boh, chi lo sa che successe dopo che ebbe tracannato mezza bottiglia? Fatto stava che era ubriaco e barcollava in giro per Dallas.
Però guardala la sua mente: il sangue della sorella gli era scivolato via dai pensieri, l'apocalisse non sapeva più cosa fosse.

«Elliott» chiamò la ragazza non appena entrò in casa «Guarda che ti ho preso»
C'era profumo di pollo fritto.
L'uomo, che era indaffarato ai fornelli, alzò lo sguardo e accorse dalla figlioccia. Gli aveva portato dell'azoturo di piombo, una sostanza altamente esplosiva che gli serviva per un esperimento inutile sulle menzogne del governo sull'esercito e cose così.
«Come hai fatto ad averlo? L'hai prodotto tu?» chiese incredulo.
«Me l'hanno insegnato a scuola» rispose lei sorridendo.
Elliott la cinse in un abbraccio. Aveva questa tendenza ad abbracciare chiunque sempre, ma dalla stretta capì che l'aveva reso particolarmente felice con quel regalo.
Lui tornò a cucinare e lei si sistemò la camicetta. «Dov'è Steve?» chiese lei.
«È giù al negozio, sulla porta»

Lo trovò lì, sulla porta vetrata dell'ex-negozio aperta. Una sigaretta mezza consumata gli fumava tra le dita. A suo padre non interessava che fumasse, glielo lasciava fare a condizione che lo facesse fuori. Steve aveva l'aria stanca, ma sorrise alla vista della ragazza.
«Dai, non mi guardare così»
Lei non rispose, e lui si mise a ridere. Faceva sempre la stessa faccia contrariata quando vedeva le sigarette, come se la sola vista di un pacchetto le desse fastidio.
«A cosa pensi?» gli chiese lei.
Steve fece un tiro, e sospirando disse: «Oggi è venuto qui un ragazzo, un tipo strambo»
«Vi ha minacciati? Fatto del male?»
«No, no. È solo che... non so come dirlo senza spaventarti»
Alzò le sopracciglia, come per chiedersi cosa potesse spaventarla tanto se non che qualcuno avesse fatto del male alla sua famiglia.
«Papà mi ha detto che quel ragazzo fa le stesse cose che fai tu»
«Cioè?»
«Lui parla come te, fa le stesse battute, diciamo, e... fa i salti. Si teletrasporta»
La ragazza sbarrò gli occhi.
«E com'era lui?»
«Ha i capelli scuri. Era in pantaloncini, e aveva una giacca blu con la cravatta, e...»
Lei rimase immobile, con le braccia conserte, senza più ascoltare. Gli occhi vuoti e lo sguardo perso.
«È Cinque, non è vero?» chiese lui.

Doveva essere il mondo degli gnomi quello, e la chiave d'ingresso era l'alcol contenuto nell'assenzio. Forse era uno gnomo in incognito quello che lo stava inseguendo. Uno gnomo molto strano, non aveva il cappellino a punta. Stava inseguendo proprio lui? Chissà perché. Anche perché lui era seduto, di questo era certo, quindi non avrebbe avuto senso corrergli incontro, non stava scappando. Lo gnomo gli si avvicinava. Era curioso di sapere cosa sarebbe successo. Sperò che volesse ucciderlo, perché pensò che sarebbe divertente essere uccisi da uno gnomo, senza cappellino a punta per lo più. Poi però apparve una fata, anche lei lo stava inseguendo, però volava più veloce. Dunque non poteva essere il mondo degli gnomi se c'erano anche le fate. Che cazzo di mondo era?
La fata si fermò e si inginocchiò accanto a lui. Emanava una luce accecante questa fata, doveva proprio essere una fata elettricista. Gli stava provando a dire qualcosa, ma a quanto pare non capiva la lingua delle fate, dato che le sue parole gli parevano un ronzio. Lo gnomo dov'era finito?
Vide però che questa fata, in mezzo alla sua luce, aveva due occhi pieni di fuoco, tutti rossi, di un rosso che gli ricordava qualcosa. Sentì il cuore spezzarsi.
«Fata elettricista, perché hai rubato occhi di Zero?» farfugliò lui.





Spazio autrice
Non so se sono riuscita a creare una suspense decente (probabilmente no) però mi sono divertita a scrivere questo capitolo
Spero di non scrivere il prossimo fra sei mesi cone faccio ogni volta
Baci

𝑰 𝒂𝒎 𝒁𝒆𝒓𝒐 𝑯𝒂𝒓𝒈𝒓𝒆𝒆𝒗𝒆𝒔 || The Umbrella AcademyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora