25. come quando guardi il cielo

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Il mattino seguente
16 novembre 1963, ore 6:10

Era seduta sul suo letto a guardare Cinque dormire con le coperte su fino al naso. Non aveva mosso un muscolo per tutta la notte, e lei fece lo stesso: era rimasta a controllarlo, senza distogliergli lo sguardo per un istante.
«Non ti sei neanche cambiata i vestiti?» gracchiò la voce da sonno di Steve, dietro di lei. Ne aveva sentito passi e la spalla appoggiarsi allo stipite della porta. «Quanto hai dormito?»
Lei non rispose.
«Ti ho portato il caffè» si avvicinò e le porse una tazza fumante, il cui colore del contenuto non prometteva bene, almeno secondo lei. I suoi occhi bruni la scrutavano preoccupati.
«Se l'hai fatto tu non lo voglio»
«È quello che hai fatto tu ieri, l'ho scaldato»
«Te l'ho detto mille volte, il caffè non va mai scaldato. Il gusto si altera e fa male allo stomaco»
«Ci ho provato» sbuffò lui sedendosi sul baule davanti al letto «ma tu stamattina hai la lingua solo per criticare»
«Pensavo che fosse finito nell'apocalisse, di nuovo»
«E non sei contenta che sia qui?»
«Sono passati quasi due anni, Steve. Non ci speravo neanche più di rivederlo» si fermò a raccogliere le parole «Ci perdiamo sempre prima o poi. Che senso ha ritrovarci, illuderci che staremo bene e soffrire, e da capo?»
Il ragazzo la osservava e allungò la mano per raggiungere la sua, che assurdamente non mosse, lasciando che Steve gliela stringesse.
«Mi è mancato» sussurrò lei con un filo di voce «Non puoi immaginare quanto»
Sentendo quella frase pronunciata con tanta premura, come se fossero parole di inestimabile valore, Steve sentì qualcosa fargli male al cuore.
«Puoi guardarmi un attimo?» la esortò. Lei non obbedì e rimase in silenzio.
«Guardami» supplicò lui.
Lei si voltò verso di lui, incontrando un paio di occhi preoccupati e forse anche un po' feriti. Aveva la bocca socchiusa, come per voler dire qualcosa senza riuscirci. Si limitò a guardarla per un po', per poi farle un piccolo sorriso.
«Andrà bene stavolta» le disse infine.
Neanche a distogliere lo sguardo per un minuto, che la ragazza si trovò addosso un altro paio di occhi. Le coperte si stavano muovendo. Senza dire niente, Cinque la stava fissando. O meglio, sembrava star fissando la sua mano, la sua mano stretta in quella di Steve. Aveva la fronte corrugata. Ci mise un po' prima di parlare.
«Zero» disse con la voce rotta. Mettendosi a sedere, serrò gli occhi e contorse il volto in una smorfia di dolore, tenendosi la testa con la mano.
La ragazza strappò via la sua mano dalla stretta per avvicinarsi a Cinque e aiutarlo a stare dritto.
«Non sei morta»
«No, neanche un po' direi»
Si stavano studiando a vicenda. Lui, che sembrava lo stesso e lei, era un'altra. Era un po' più alta, i capelli le erano cresciuti e non indossava la solita divisa: aveva dei pantaloni beige troppo larghi e un maglione verde scuro, altrettanto fuori misura. E poi, aveva un'aria diversa, come se avesse un'altra luce che però non ricordava di aver mai visto nei suoi occhi.
Steve li osservava nel loro strano silenzio un po' interdetto. Pensò che se avesse osato parlare che come minimo lo avrebbero pestato a sangue, quindi stette zitto. Non era così stupido alla fine.
«Di chi è quel sangue?» chiese lei in tono di rimprovero, afferrandogli il polso.
«Il tuo».
Lo fissò con un'espressione indecifrabile in volto. «Se sei arrivato ieri, immagino che per te l'apocalisse sia stata ieri»
«Immagini bene». I suoi occhi ancora arrossati parlavano da soli. «Per te quando è stata?»
«Quasi due anni fa»
Dunque nella testa di Cinque ci fu un frulla-frulla di informazioni confuse che risultarono in una lista di dubbi abbastanza lunga, come "è stata bene per tutto questo tempo?" e "ha fatto in tempo a dimenticarsi di me?". Questi pensieri però, anche se piuttosto rilevanti, vennero surclassati da una domanda di sintesi fondamentale: «Ma chi cazzo è questo qua?» chiese guardando Steve, senza ricordarsi di averlo già incontrato il giorno precedente.
«È Steve»
«Ah, chiaro. Puoi andartene, Steve?»
L'interessato lo guardò male. Si voltò verso Zero come a chiederle con gli occhi che avesse suo fratello che non andava. Lei gli fece cenno di andarsene con uno sguardo quasi comprensivo, di supplica nei suoi confronti. Allora sospirò e uscì dalla stanza portandosi dietro il caffè ormai freddo.
«Chi cazzo è?» chiese di nuovo Cinque.
«Che t'importa?»
«Eccome se m'importa. Cos'è, state insieme?»
Zero fece una smorfia di disgusto, forse un po' forzata. «Quel tizio che ieri hai spaventato, Elliott, è suo padre»
«Eri tu la figlia di cui parlava quindi?»
«Boh, mi considera come tale. È un tipo strano, ma si preoccupa per suo figlio, e per me. Più di quanto abbia mai fatto nostro padre con tutti noi messi insieme»
Cinque annuì confuso. «E quindi è tuo fratello? Il mio sostituto?»
E poi vomitò nel secchio che Zero aveva messo apposta accanto al letto. Ma non mi sento di raccontare i dettagli, se no vomito pure io.
«Sei un coglione» gli disse lei una volta che ebbe finito di espellere nel secchio ciò che andava espulso.
«Dimmi qualcosa che non so» grugnì lui, maledicendosi. Gli bruciava la gola. Forse gli bruciava tutto e basta.
Un bicchiere d'acqua dopo, Cinque ricominciò a fare domande:
«Quindi, come sei finita qui?»

𝑰 𝒂𝒎 𝒁𝒆𝒓𝒐 𝑯𝒂𝒓𝒈𝒓𝒆𝒆𝒗𝒆𝒔 || The Umbrella AcademyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora