18. Jo

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Appartamenti Kismet-Service, 1955

Un'altra vita innocente andata, persa nella pozza di sangue in cui il corpo esanime giaceva immobile. E la colpa era ancora una volta sua.
Lei aveva premuto il grilletto. Lei aveva strappato una madre innocente alla sua famiglia, ai suoi bambini. Non era come uccidere criminali e gente con scopi malvagi, non lo era neanche lontanamente.
Aveva chiesto ai piani alti della Kismet se fosse possibile che le fossero affidati solo incarichi che non riguardassero la gente comune, ma le risposero che non avrebbero potuto permettere lussi del genere a dipendenti come lei, di cui l'esistenza era di per sé un rischio. E poi se l'incarico fosse stato affidato a qualcun altro, quelle persone sarebbero comunque morte, ma per mano diversa. Quindi, cosa cambiava alla fine?
Non appena faceva ritorno dalle missioni si chiudeva nel suo appartamento e disegnava come faceva da bambina, quando andava in camera sua, si sedeva per terra e portava le ginocchia al petto, cercando di convincersi che quello che aveva fatto non era sbagliato.
Puntualmente si trovava il suo quaderno fluttuarle davanti al naso. <Disegna quello che ti tormenta> la esortava Cinque, porgendole l'oggetto.
Quando finiva i suoi schizzi, le possibili reazioni del fratello potevano essere una frase d'incoraggiamento come "Cos'è questo sgorbio?", oppure un'espressione affranta dipinta sul volto accompagnata dal silenzio.
E ora continuava a disegnare, dopo ogni morte in più che si trovava sulla coscienza. Ma era parecchio più difficile, senza nessuno a passarle il quaderno.
Quel giorno, dopo essere tornata dal 1741 per l'incarico riguardante la donna citata sopra, si chiuse la porta alle spalle pensando solamente a dove avesse lasciato il suo blocco da disegno, quando sentì bussare insistentemente.
<Apri per favore, dobbiamo parlare> la voce di Jo sembrava stanca da dietro la porta.
Lei non ne aveva nessuna voglia, ma decise comunque di farlo entrare. D'altronde non poteva evitarlo per sempre, perché prima o poi avrebbe dovuto averci a che fare. Esitò per un momento e girò la maniglia.
Jo era lì fermo davanti all'uscio. Non si poteva davvero dire cosa stesse provando, o cosa volesse da lei. Il mix di emozioni confuse che si manifestavano sul suo volto era indecifrabile.
<Non sei un po' grande per chiuderti nella cameretta ogni volta che qualcosa non va?>
Zero si sedette per terra col suo quaderno e una matita trovata sotto al divano, come se non avesse sentito niente.
Lui rimase in silenzio ad osservarla.
<Quindi è questo che fai ogni volta? Disegni?>
<Già>
<Come mai?>
<Non so, mi calma>
Iniziò a dubitare di quella calma. <Non sei mai così>
<Così come?> chiese distratta.
<Sembri così... tranquilla>
Non rispose. Pensò che non avesse senso razionalizzare le sue sensazioni, a cercarne un perché. Credeva che se avesse trovato una spiegazione alla magia questa sarebbe sparita, perché è ciò a cui porta la ragione.
Jo, per l'appunto, era un tipo parecchio razionale. Ogni cosa si può spiegare e tutto deve avere un senso perché il meccanismo nella sua testa ingrani, e se qualcosa non gli tornava ne cercava la sua soluzione insistentemente.
Infatti la prima cosa che pensò fu quale razza di stregoneria fosse quella. Zero era così serena, come svuotata da ogni male e si trovasse in un campo di fiori invece che in un bilocale polveroso. Gli piaceva vederla in quello stato.
<Non mi piace vederti sempre triste>
Zero alzò le sopracciglia, ma senza mai distogliere lo sguardo dal quaderno.
<Come mai ti importa di come io stia?>
Rimase un attimo perplesso dalla domanda. <Beh, mi intristisce vederti sempre in quel modo, ecco>
<Quindi è una questione di egoismo se ti preoccupa che io possa guastarti l'umore>
<Non intendevo questo. Volevo dire che puoi parlare con me. Non posso fare chissà cosa per toglierti da questa situazione, però posso essere qualcuno di cui puoi fidarti. Siamo sulla stessa barca, o sbaglio?>
Era stanca, terribilmente stanca di cercare di capire cosa volesse Jo da lei. Voleva sapere il motivo per cui quel ragazzo era ossessionato dal volerla felice. E perché si fosse messo a fare l'empatico fallito da un momento all'altro.
Rimase in silenzio per un po' prima di dire: <Dimostramelo>
<Cosa?>
<Che posso fidarmi di te>
Fece un minuscolo sorriso e un sospiro rumoroso: <il mio vero nome non è Jo>
Si fermò per osservare le reazioni di lei, ma dato che non aveva mosso un muscolo e non sembrava minimamente stupita continuò: <il mio vero nome non lo conosco, ma so che il nome con cui mi chiamava mia madre non era Jo,> si passò una mano sulla fronte come per ricordare cosa stava dicendo <Jo è il nome che mi diede una donna che si fa chiamare Handler quando mi portò via, dopo aver visto i miei genitori morti sulla porta di casa. Si prese anche un'altra bambina, Lila. Ci disse che sarebbe stata la nostra mamma, ma non sono mai riuscito a chiamarla così. Cercò di manipolarci affinchè non ricordassimo che i nostri genitori erano morti, ma quando ha visto che non funzionava ci convinse che la nostra sorte era in realtà fortunata, perché siamo stati tolti dalle grinfie di persone malevole che non ci volevano bene. Siamo cresciuti come soldati che un giorno avrebbero reso l'organizzazione invincibile. L'unico amore che abbiamo mai ricevuto era quello di una segretaria in pena per noi che ci portava dei dolcetti proibiti di tanto in tanto e ci strappava dei sorrisi di compassione>
Zero nel frattempo continuava imperterrita a disegnare.
Lui continuò: <Lila le credeva, e le crede tuttora. Anche per questo la streg- cioè, Handler preferiva lei a me. Vivevo costantemente nella sua ombra. Oltre all'ingenuità che le faceva comodo, Lila aveva un super potere più impressionante del mio. Era più utile insomma. E non credo ci sia da spiegare il perché sono finito a combattere contro l'Organizzazione>
Zero alzò lievemente le sopracciglia e stette zitta per un attimo. <Tu avresti un superpotere?>
<Questa sarebbe la parte della storia che ti avrebbe colpita di più?>
<Già, non lo sapevo>
Ci fu un momento di silenzio. Lei pensò che alla fine le loro storie non erano così diverse.
<E qual è questo superpotere?>
<Non sei per niente impietosita da questa storia?>
<L'obiettivo era impietosirmi, quindi? Vuoi giustificare la tua orribile personalità con un trauma infantile? Neanche il mio vero nome è Zero, eppure sono qui per un motivo diverso dal tuo. Tu stai soltanto cercando vendetta, il che non mi sembra molto nobile come scopo nella vita, a prescindere dal tuo passato>
<Ma sei comunque qui con me. A uccidere persone>
<Stai cercando di ottenere la mia fiducia o di farmi incazzare?>
<D'accordo, scusami> disse con un sorrisetto.
Il fatto che avesse semplicemente assentito in quel modo infastidì Zero. Sapeva che non le stava dando davvero ragione, e per questo si sentiva presa in giro, come se non stesse controbattendo perché la riteneva troppo stupida per poter capire le sue ragioni.
<Ti fidi di me dunque?>
<Ci vorrà tempo perché accada, se mai accadrà>

𝑰 𝒂𝒎 𝒁𝒆𝒓𝒐 𝑯𝒂𝒓𝒈𝒓𝒆𝒆𝒗𝒆𝒔 || The Umbrella AcademyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora